Conservatori e progressisti/Vecchi che vogliono sentirsi sempre giovani

Martino Pietropoli, che è un architetto, ha scritto cose molto interessanti sul tema “giovinezza”. Le riporto commentandole via via.

Se a una certa età dovessi mai dire che la musica dei giovani è uno schifo, ti prego di abbattermi” dissi un giorno ad un amico. L’avversione per i nuovi strumenti e i nuovi linguaggi è antica. Platone raccontava dell’avversione di Seneca per la scrittura che secondo lui avrebbe compromesso la memoria dell’umanità, affidandola ai testi scritti invece che alla propria memoria mnemonica. Come amo ripetere anche le persone intelligenti talvolta dicono cose poco intelligenti. Qualsiasi riferimento alla IA è o non è utile?

La giovinezza è un punto nodale della vita di ciascuno di noi, anzi, a ben pensarci, è così importante da diventare un sistema di riferimento, a tratti talmente centrale da essere l’unico. E’ una fase della vita che ci ha modellati. Cercavamo la nostra posizione e le esperienze maturate in quegli anni hanno impresso un direzione. Avevamo bisogno di trovare uno specchio che ci restituisse una immagine: quello specchio erano la musica, i libri, i film. Linguaggi di mondi che magicamente riuscivamo a comprendere. Siamo rimasti legati a quelle prospettive, a quegli orizzonti, a quelle esperienze di comprensione e decifrazione. Nella giovinezza ci parve di capire le cose, per la prima volta. Non sapevamo che dopo non avremmo più capito niente. Si stava meglio prima? I conservatori vogliono riportare indietro l’orologio della storia: vogliono tornare giovani. Vogliono riavere la prospettiva sgombra che avevano a quella età. Non bramano che rivivano quegli anni ma piuttosto che riviva loro stessi e la loro giovinezza. E’ un paradosso interessante: chi vuole conservare, in realtà, vuole tornare a quella sensazione di potenziale illimitato che caratterizza la giovinezza. La nostalgia dei conservatori per un passato idealizzato non è tanto il desiderio di riportare indietro il tempo, quanto quello di riavere quella prospettiva aperta, quella capacità di vedere il mondo come possibilità anzichè come limite. Solo il presente si può conservare, conservare il passato è l’equivalente della riesumazione di un cadavere. I conservatori quindi intendono conservare il passato per non perdere quella sensazione, che abbiamo provato da giovani, della scoperta di nuovi mondi e linguaggi. Solo che il passato non si può conservare perchè è passato e non torna più.

Slavoi Zizek (filosofo marxista, sloveno) “Per me è successo tutto tra il 60 e il 70, in quel periodo sono successe le cose più interessanti, oggi viviamo ancora l’eco di quegli anni”. Non posso negare che l’arte, le battaglie civili e in genere, la cultura nata in quegli anni abbiano tuttora una potenza e un riverbero che sembra non diminuire. Non intendo che siano intensi come allora: intendo che ancora propagano onde, e sono ancora un un sistema di riferimento imprescindibile. Ho capito allora che Zizek suggeriva una lettura diversa: non tanto un elogio nostalgico del passato, quanto una critica implicita all’incapacità del presente di generare trasformazioni altrettanto fondanti. Quegli anni furono rivoluzionari non perchè migliori ma perchè fondativi. La cultura che emerse in quel periodo non si limitò a modificare l’esistente o a ergersi sul suo terreno: creò nuova fondamenta, ancora oggi solide nonostante i tentativi di erosione. Fu un momento di rottura genuina, di reazione autentica, non di semplice evoluzione o adattamento. Esiste una verità essenziale sulla natura del cambiamento culturale: una cultura veramente potente deve essere autofondante. Non può limitarsi a costruire su ciò che già esiste, se non forse all’inizio e per contrasto. La forza della cultura giovanile degli anni 60/70 fu proprio questa: la capacità di creare nuovi linguaggi, nuove forme di espressione, nuovi modi di pensare che non derivavano da quelli precedenti. Negli anni 60/70 da Luciano Tajoli (1920) e Claudio Villa (1926) a Lucio Battisti (1943) il cambiamento del linguaggio musicale si è colto; oggi  tra Diodato (1981) e De Gregori (1951) non tanto.

Semplificando la lettura del mondo, si potrebbe pensare che la contrapposizione avvenga tra visione conservatrice e progressista, nostalgica e ottimista. In verità a contrapporsi sono anche i linguaggi, non solo le prospettive. Queste visioni del mondo anche hanno anche linguaggi diversi. Linguaggi che smettono di comunicare tra loro. L’incomprensione genera attrito, e l’attrito porta a un circolo vizioso: prima il ridimensionamento attraverso la retorica del si stava meglio prima, poi l’attacco frontale per silenziare le voci del cambiamento. E’ un processo che si ripete ciclicamente, ogni volta che una nuova generazione cerca di affermare la propria visione del mondo. Il conflitto generazionale non è tanto un conflitto di valori ma di linguaggi. Questi linguaggi non sono semplicemente diversi, sono spesso mutualmente incomprensibili, non tanto per una questione di vocabolario quanto per i mondi che creano attraverso attraverso il racconto delle proprie storie. L’incomunicabilità (si comunica lo stesso anche attraverso di essa) diventa allora non un fallimento ma un indicatore prezioso delle trasformazioni culturali in atto. La cultura rivoluzionaria di quegli anni del secolo scorso è ancora vitale perchè non ha mai assunto una forma precisa, non ha confini nè limiti, come la giovinezza genera ancora possibilità. L’età adulta e conservatrice vede il futuro come conservazione, quella giovane come possibilità. Ogni cultura genera un linguaggio e ogni nuovo linguaggio illude – o forse conferma – che esista la possibilità concreta di immaginare un futuro diverso. Il linguaggio, del resto, genera mondi. Che il conflitto generazionale non sia tanto un conflitto di valori ma di linguaggi diversi, spesso mutualmente incomprensibili, lo accerta ciascuno di noi, così come un insegnante di italiano che ponga a confronto i temi dei suoi alunni corretti ad inizio carriera con quelli corretti dopo 30 anni: non tanto per una questione di vocabolario quanto per come sono scritti (oggi qualcuno riesce a scrivere solo a stampatello). 

Ma al di là dei linguaggi diversi  (i contenuti possono essere gli stessi, amore, odio, vendetta, giustizia, ma cambia il come vengono espressi attraverso varie forme artistiche), la dicotomia tra conservatori e progressisti osservata attraverso il richiamo alla gioventù è rilevante in politica. Si potrebbe pensare che il crescere, diventare adulti e progressivamente invecchiare porti le persone ad acquisire una maggior saggezza, ma i ricercatori della saggezza, ovvero coloro che da 30 anni a questa parte (l’attenzione verso questo tema è appunto materia relativamente recente) si stanno occupando di condurre ricerche scientifiche in questo particolare ambito, non concordano all’unanimità su tale affermazione. Pertanto se invecchiare non significa diventare più saggi, potremmo capire perchè mai gli estremisti non cambiano visione del mondo con l’età. Su questo punto la riflessione di Pietropoli è interessante quando sottolinea che chi vuole conservare, in realtà, vuole tornare a quella sensazione di potenziale illimitato che caratterizza la giovinezza. La nostalgia dei conservatori per un passato idealizzato non è tanto il desiderio di riportare indietro il tempo, quanto quello di riavere quella prospettiva aperta. In altre parole è il disperato tentativo di pensarsi ancora ventenne pur con il corpo da vecchio con davanti una prospettiva aperta, sgombra, piena di opportunità.

Infine mi sento di aggiungere che dietro la rigidità di alcuni irriducibili (tipo vecchi brigatisti in carcere mai pentiti o vecchi politici da talk tv che sono ormai replicanti di loro stessi) ci sia l’assoluta incapacità di ammettere gli errori, di tornare sui propri passi e correggersi, in una forma sublimata di superbia intellettuale autoassolutoria. Cambiare è sempre difficile, continuare a fare quel che si è sempre fatto o pensato è molto più comodo.