Il segreto di una canzone di successo è la ritmica

Il successo di una canzone dipende dalla ritmica e dall’incipit (le prime note). Avete presente quei cantanti in concerto che prima di iniziare una canzone invitano il pubblico a battere le mani? Ecco, fateci caso, i grandi non lo fanno mai perchè sanno che appena cominceranno a suonare, battere le mani verrà naturale (non c’è bisogno di raccomandarlo). Il ritmo è uno dei primi elementi musicali che l’essere umano inizia a percepire: è il cuore della mamma che batte. Ogni canzone ha un ritmo che puoi accompagnare con le mani o con i piedi.

Comincio con un esempio che è “Sapore di sale” di Gino Paoli. Paoli, come i Bindi, Tenco, De Andrè, insomma i cantautori genovesi, è autore triste e melodico. In realtà quella canzone è il prototipo della melodia triste, anche se parla di estate, mare, sole. Fortuna volle, per Paoli, che ci mise mano Morricone, al quale si deve la ritmica della canzone che l’ha irrobustita, con i famosi contrappunti e un meraviglioso assolo di sassofono di Gato Barbieri. Insomma, voglio dire, è l’arrangiamento e l’orchestrazione che con la ritmica hanno fatto risaltare ancora di più la melodia. Senza ritmica, la melodia non si regge come un abito indossato da un manichino invece che da un bel corpo.
Una canzone è come un dipinto, è frutto della geniale e armoniosa fusione di elementi diversi. Il ritmo si unisce alla melodia, all’armonia, ai timbri strumentali, per creare un effetto complessivo. Ma l’elemento primario, comune sia alla musica sia alla danza, che non potrebbero esistere senza di esso, è il ritmo, il cuore della musica, ciò che le assicura il movimento e la vita. In certe canzoni (senza fare nomi) non lo avverti e quindi ascolti roba senza aria. Parole ferme e prive di anima, il contrario della musica.

Il successo attuale italiano di No Stress, scritto da Marco Mengoni, Davide Petrella e Zef – che è anche produttore del brano, si spiega con la ritmica, colorata da elementi e sound latini.  C’è la Detroit Techno anni ‘90, poi la parte melodica ha influssi europei, mediterranei; il piano è suonato quasi in stile acid-jazz e talvolta ricorda l’R&B e il New Soul europeo.

Se ascoltate Rip this joint dei Rolling Stones (lo potete fare su youtube oppure in questo blog nella pagina CanzoniAmate) appena comincia non potete fare a meno di muovere tutto il corpo. E’ il segreto del rock, come quello che suona Jerry Lee Lewis (1935). Lo chiamavano the killer per il modo turbolento in cui si muoveva sul palco. E’ un pianista e cantautore statunitense, uno dei padri che ha avuto un posto nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1986. Batteria, tamburi, basso, pianoforte, chitarra di accompagnamento in genere formano la ritmica di una canzone. Sopra questo tappeto ci puoi mettere di tutto, melodia, parole, urla, cori, ma è il sottofondo di una canzone a renderla unica. Tu puoi avere la barca ma se non la metti sopra il mare non vai da nessuna parte.
Se il ritmo è l’espressione del movimento fisico e quindi della danza, la melodia (frase musicale e canto) è l’espressione del sentimento. Essa può essere fatta di poche note, oppure essere un lungo elaborato discorso musicale fatto di tante note, che richiede molta attenzione per essere eseguito e compreso.
In ogni brano musicale, parlo di una canzonetta ma lo stesso vale per una grande sinfonia, ritroviamo il ritmo e la melodia, e con essi l’idea della danza e del canto. Noi attraverso il linguaggio esprimiamo i nostri pensieri, con la melodia il musicista si esprime e conduce il suo discorso musicale, con un suo inizio, un suo sviluppo e una sua conclusione.

La melodia, di cui la canzone napoletana o un Lucio Battisti ci hanno mostrato tutti i possibili sviluppi, attira la nostra attenzione ed è quello che vuole il compositore, che finito l’ascolto essa ci rimanga in testa. Come la melodia è una successione logica di suoni diversi, così l’armonia è un’altrettanto logica successione di accordi, che sono due o più suoni che echeggiano insieme. La melodia nasce dal susseguirsi ritmico di suoni diversi, l’armonia è fondata sul loro risuonare contemporaneo. Due o più suoni che echeggiano insieme costituiscono un accordo. L’accordo è l’unità di base dell’armonia. L’armonia in un brano di musica ha la funzione di completare la melodia, di ambientarla, di darle risalto attraverso il gioco degli accordi, in una parola, di farle da sfondo ideale.
Infine vi sono i timbri musicali, che sono paragonabili al colore per un pittore. Ogni strumento ha un suo timbro diverso e caratteristico, è in un certo senso un colore musicale. Il compositore, o meglio l’orchestratore, poiché così si chiama colui che realizza la musica per l’orchestra, per creare il proprio “quadro sonoro” li mescola fra loro.
Senza George Martin, il geniale produttore, arrangiatore, pianista e confidente, insomma “il quinto Beatles”, di sicuro i Beatles non sarebbero stati quel fenomeno musicale che abbiamo conosciuto. Ogni canzone da lui orchestrata conteneva dei timbri particolari che hanno “colorato” e “illuminato” il suo pensiero musicale. La scelta iniziale (ecco l’importanza della ritmica) che fece fu quella di sostituire il batterista Pete Best con Ringo Starr appena firmarono con la Parlophone. Gli piaceva la sua energia, lo aveva scovato a Liverpool negli Hurricanes di Rory Storm. Le invenzioni di Martin  sono ancora leggendarie: Strawberry Fields Forever non ha una tonalità esatta, è a metà tra due valori tonali; oppure chi non ricorda il celebre accordo iniziale di A Hard Day’s Night che apre l’album e il film?; chi non riconosce gli archi di Yesterday?; e poi strumenti classici suonati in modo inverosimile (la scrittura per archi di Martin fa scuola) o usati come rumore, come nell’interludio di A day in the life, in cui Martin convocò un’orchestra di quaranta elementi e chiese ai musicisti di suonare il loro strumento dalla nota più bassa a quella più acuta.
La ricchezza di timbri musicali, se sfruttata sapientemente, è in grado di far nascere nell’ascoltatore le immagini e i sentimenti più diversi. Un corno inglese, dei clarinetti e dei fagotti possono richiamare immagini pastorali; un ottavino in mezzo ad un sommesso accordo di violini il canto di un usignolo nella foresta; il rullare dei timpani in un crescendo di tutta l’orchestra il cupo fragore del temporale.
Talvolta una composizione viene concepita addirittura in funzione di un determinato timbro strumentale, come accade ad esempio per i concerti in cui l’elemento predominante è lo strumento solista (pianoforte, violino, violoncello, flauto, ecc.). In questo caso la musica sfrutta al massimo non solo le risorse tecniche dello strumento, ma anche e soprattutto le sue qualità timbriche.
Prendiamo Out of time, un brano dei Rolling contenuto in Aftermath. L’hanno scritta nel 1966 Mick Jagger e Keith Richiard e nella versione originale durava 5 minuti e mezzo. Comincia con un ritmo sincopato (il cuore che pulsa e batte è la musica primordiale) di un vibrafono e di un basso prima che intervenga la batteria e poi la voce di Mick. Ma prima ancora di ascoltare il cantante siete inchiodati all’ascolto.
In ogni canzone le prime note, i primi 5 secondi sono tutto. I più grandi arrangiatori (Morricone su tutti, lo spiega benissimo il film Ennio) hanno creato successi sulla base di invenzioni musicali ascoltabili nei primi secondi. C’è lui come ho già spiegato dietro al capolavoro estivo per eccellenza, il gioiello di Gino Paoli, Sapore di sale, con il suono del basso elettrico suonato con il plettro, le poche note dissonanti di pianoforte e l’assolo di sax . Ma Morricone “aveva teorie tutte sue, su arrangiamenti completamente privi di sezione ritmica, senza la batteria”, ha spiegato il suo discografico di allora. In genere nelle canzoni la ritmica è data dalla batteria. E’ tutto spiegato nel documentario di Paul McCartney con Rich Rubin nel quale il beatle spiega per filo e per segno come sono nati tantissimi brani che li hanno resi ricchi e immortali. Oppure lo si vede nel documentario di Peter Jackson in 6 puntate THE BEATLES- GET BACK. Ne ricordo un momento. Siamo al quarto giorno di riprese. E’ mattina. Paul, George e Ringo sono in studio. John è in ritardo. Parlano. Dopo un’ora e tre minuti dall’inizio del documentario Paul si mette a strimpellare qualcosa con il suo basso. All’inizio si distinguono solo accordi in libertà e un tempo veloce. Una sintetica didascalia dice che quello che sta per emergere sarà il singolo successivo dei Beatles. Succede tutto molto in fretta: McCartney tiene lo stesso tempo, infila due accordi, abbozza una linea melodica che in pochi secondi si raffina, poi ancora una serie di accordi, ancora qualche nota, le parole “woman” e “get back” gli escono quasi naturali dalla bocca. Fa una pausa, sempre tenendo il tempo con il piede. Prende fiato. Riattacca. E questa volta la canzone (Get back) è fatta e finita. Gli accordi, il ritmo, la linea melodica: c’è tutto. George riproduce gli accordi con la chitarra, Paul raffina la linea di basso, Ringo tiene il tempo con le mani. A questo punto c’è uno stacco: entra in scena John, Ringo è alla batteria e la canzone è praticamente finita.
Stacchi compresi, la scena dura circa 4 minuti. Naturalmente non sappiamo se Paul McCartney avesse in mente da tempo quella melodia, se l’avesse provata o se gli sia venuta al momento. Se però dobbiamo credere al documentario di Peter Jackson (e non abbiamo ragione di pensarla diversamente) Paul McCartney ha concepito Get Back in tre minuti. Certo: mancano gli arrangiamenti e il testo – che, sappiamo, ha avuto una gestazione piuttosto travagliata- ma la cosa impressionante è che vediamo nascere sotto i nostri occhi, in pochissimi secondi, un successo planetario.

Can’t take my eyes off you” (Non riesco a toglierti gli occhi di dosso), titolo abbreviato perchè in realtà è molto più lungo, è una ballata ritmica del 1967 scritto da due Bob, Crewe e Gaudio, arrangiato da Artie Schroeck e portato al successo da Frankie Valli (poi da Gloria Gaynor). E’ una canzone famosissima, un classico, perchè la trovata è l’irruzione dei fiati prima del ritornello
I love you baby, and if it’s quite alright
I need you baby to warm the lonely nights
I love you baby, trust in me when I say
Ti amo piccola, e se è tutto ok
ho bisogno di te per scaldarmi nelle notti solitarie
credimi quando lo dico.
La canzone comincia piano con una tromba e la batteria ma esplode letteralmente attraverso i fiati prepotenti (con un linguaggio tipico delle big band jazzistiche) che preparano “I love you baby…”. La cosa simpatica è che questo classico è diventato l’inno dell’amore ma anche un inno pacifista in quanto il regista Michel Cimino la ha inserita nel suo film Il cacciatore nella celeberrima scena del matrimonio, quando tutti i protagonisti la cantano in coro, rendendola il filo portante dei pochi momenti felici condivisi dagli amici prima di affrontare la drammatica esperienza della guerra in Vietnam.

Talvolta, come in My sweet lord, un mantra creato da George Harrison, bastano 15 secondi di una chitarra introduttiva prima di una chitarra hawayana per farti entrare nella musica. Era il 1970 quando George pubblicò questo suo primo singolo, ed era un pezzo soul nel concetto, nella struttura e nell’ispirazione, lo standard ‘Oh Happy Day‘ che proprio in quei mesi era stato portato in classifica da The Edwin Hawkins Singers. Con lui in sala di registrazione c’erano Eric Clapton, Ringo Starr, alcuni membri dei Badfinger e Phil Spector in cabina di regia per condire il tutto con il suo celebre wall of sound. DDDUDUUUDUD.
Nel 1963 era stata pubblicata un’altra canzone spirituale, He’s so fine, delle The Chiffons, e in effetti i due brani (He’so fine e My sweet lord) si assomigliano molto, anche se Harrison ha sempre parlato di un plagio inconscio.

Ogni musicista che intenda comporre una canzone la prima cosa che  fa è pensare alla ritmica. I manuali spiegano infatti: quando ragioni su come accompagnarti con il tuo strumento, non devi pensare alla ritmica come esterna a te, ma devi ragionare sui suoi elementi base:
i macrobeat, per stabilire la velocità del brano, che trovi facilmente spostando il peso del corpo da un piede all’altro e andando a cercare quella pulsazione ritmica grande e costante;
i microbeat, che sono la suddivisione interna di quei macro, e che puoi trovare sulla punta delle dita con un movimento piccolino, che non fa quasi rumore. I micro ti sono utili per stabilire il metro del brano, e cioè se ti va muovere in due (binario) o se ti fa muovere in tre (ternario).
Stabilita velocità e metro del  brano, scegliere la ritmica è facile.