(G. Corbellini, A. Mingardi) La paranoia che si è scatenata per la variante Delta del coronavirus rischia di ritardare il ritorno al pieno godimento della libertà personale e di danneggiare ulteriormente le attività economiche azzoppate da un anno di “distanziamento sociale”. Ma ha, purtroppo, una sua logica. Rappresenta il colpo di coda di una vera e propria idea di “governo della pandemia” che ha riscosso grande successo mediatico e incassato la piena adesione del ceto politico.
Essa consiste nel credere che si possa spiegare e intervenire su un fenomeno complesso surfando con algoritmi meccanico-matematici sopra a nuvole di fatti non deterministici. “Nuvole e orologi” è il titolo di uno dei saggi più celebri e innovativi di Karl Popper, pubblicato nel 1966, nel quale il filosofo della scienza mostra che le dinamiche creative che governano i cambiamenti della realtà, in particolare quella sociale, sono riconducibili a modelli darwiniani, e non invece a modelli fisico-matematici. Possiamo scommettere che quasi nessuno abbia letto Popper tra i fisici, matematici, o data analyst che negli ultimi decenni hanno trasferito formidabili competenze statistiche applicandole a processi biologici, inclusi quelli epidemiologi.
Alla fine, si scoprirà che modelli e big data hanno aiutato il virus a causare larga parte dei danni dovuti alla pandemia. Come? Lasciamo la parola a uno dei più autorevoli e influenti statistici britannici, George Box, il quale ripeteva che «tutti i modelli sono falsi, ma qualcuno è utile». Se sono tutti falsi, quel che conta, diceva, è capire in che senso lo sono: «Non è appropriato preoccuparsi di topi quando abbiamo a che fare con tigri». Purtroppo, è sembrato che il problema di capire la cosa con cui si aveva a che fare fosse irrilevante.
Nelle epidemie del passato, l’uso dei dati e dei modelli matematici (dall’inizio del Novecento) veniva regolarmente modulato attraverso un lavoro di standardizzazione delle informazioni raccolte e un confronto continuo con il mondo reale, così da ottenere modelli previsionali il più possibile sintonizzati con la realtà dei processi descritti. Scegliere quale valore assegnare a un parametro in modi arbitrari, aggiustando il valore via via che i dati reali si discostano da quelli previsti, o a seguito di studi fatti sul campo, mostra la differenza che c’è fra l’aruspice e lo scienziato. Il problema che molti scienziati hanno denunciato è che durante le pandemie i modelli sono stati scambiati con la realtà e i dati sono stati usati come gli indovini usano i fondi di caffè per predire il futuro.
In che modo i modelli e i dati raccolti a casaccio hanno fatto danni? Semplicemente producendo, sulla base di decisioni soggettive degli utilizzatori dei modelli in merito ai valori delle variabili usate, scenari tragici, che sono stati adottati dai governanti per introdurre o proseguire politiche di restrizione delle libertà personali e in generale della convivenza sociale. A prescindere da qualunque meccanismo di controllo o approccio falsificazionista. È accaduto quasi sempre, sin dall’uso dei primi modelli e scenari prodotti dall’Imperial College in Europa, e sta accadendo ora di fronte alla variante Delta (ex indiana) del coronavirus.
Gli inglesi hanno rinviato il loro Freedom Day perché i modelli prevedono centinaia di migliaia di nuovi casi, come scenario peggiore, in ragione della percentuale di popolazione non ancora vaccinata o di quella vaccinata con una sola dose. Ma lo scenario più ragionevole dovrebbe tenere conto che le persone vaccinate con doppia dose sono completamente protette e che chi è stato vaccinato una sola volta è comunque protetto contro i sintomi più gravi della malattia. Questo ha un effetto chiaro: riduce la popolazione suscettibile, in particolare nelle fasce d’età che potevano avere esiti più gravi.
È singolare l’allarme che si è scatenato, anche in Italia, e rivela un punto cruciale. Qual è l’obiettivo delle politiche di contrasto dell’epidemia? Chi ci legge ricorderà che da principio le misure restrittive erano argomentate sulla base dell’obiettivo di “appiattire la curva”: ridurre la velocità di circolazione, distribuire i casi su un periodo più lungo. Ma, in tutta evidenza, le motivazioni dei governi sono cambiate. E, in questo, i modelli c’entrano qualcosa. I modelli inducono alla credenza, sbagliata, che l’obiettivo del controllo di una infezione debba sempre essere l’eradicazione del virus e l’eliminazione della malattia, zero-Covid o no-Covid come è stato chiamato. Auspicabile o meno, è chiaro che questa strategia può portare sostanzialmente alla sospensione della vita sociale ordinaria, fatta di scambi e incontri, a tempo indefinito.
In realtà, per un virus ubiquitario che evolve in continuazione la strategia da preferire sarebbe procedere rapidamente con le vaccinazioni, cioè completando quelle degli adulti e accelerando con i giovani, i ragazzi e i bambini, cioè approfittando della crescente copertura così che il virus circoli ma praticamente senza causare decessi (zero-morti per Covid, non zero Covid). In questo modo, la circolazione del virus potrebbe funzionare anche come richiamo naturale per l’immunità artificiale. Se si torna alle quarantene o alle limitazioni dei contatti, ovvero si creano nuovi colli di bottiglia artificiali per il virus, la natura darwiniana del fenomeno troverà sbocco in dinamiche evolutive che potrebbero modificare per noi dannosamente non solo la trasmissione ma anche la virulenza del parassita.
Perché i modellisti preferiscono gli scenari peggiori? Come ha ben scritto Matt Ridley, lo scenario peggiore è di norma quello preferito dai politici, ma in ultima istanza anche dagli esperti. I politici lo preferiscono per l’innata inclinazione di chiunque abbracci la politica a interferire con le libertà individuali sulla base dell’idea di avere accesso o possedere informazioni migliori delle persone comuni, in questo caso sui rischi sanitari, ovvero di dover agire per il bene degli altri (detto anche bene “comune”), “altri” che, appunto, non saprebbero individuare il proprio bene con la stessa lungimiranza del politico. La pandemia in corso può essere guardata come un piccolo esperimento naturale per quanto riguarda l’inclinazione paternalistica cui hanno dato sostanza anche giuridica i politici.
Sul fronte degli esperti, l’opzione dello scenario peggiore è stata abbracciata anche e forse soprattutto da coloro che avevano completamente sbagliato le previsioni iniziali, paragonando Covid-19 a una banale influenza. Come ricorda Ridley, conviene di gran lunga sbagliare una previsione pessimistica rispetto a una ottimistica: in questo secondo caso ne va pesantemente della reputazione a fronte dei danni registrati, mentre nel primo la soddisfazione per i mancati danni cancella l’errore commesso. Si può spiegare così, per esempio, il successo e la reputazione di cui continua a godere Neil Ferguson dell’Imperial College, che dal 2000 non ha mai azzeccato una previsione pandemica, incluse quelle relative a Covid-19, ma ha sempre fornito previsioni catastrofiche a chiunque gliele abbia chieste.