Non intendo svolgere un’analisi storica per la quale non ho competenze ma vorrei richiamare alla mente la disputa che si svolse a partire dal 1968 tra Cosenza e Lamezia Terme per la sede dell’Ateneo della Calabria. Quella contesa, alla quale io partecipai con la tessera della Fgci (giovani comunisti) in tasca, col trascorrere del tempo mi ha fatto capire meglio la politica. Qual era il posto “giusto” per l’ateneo calabrese? Il centro del discorso è l’aggettivo “giusto”.
La politica non seppe scegliere il posto giusto. Per la semplice ragione che è sempre mancata una politica riformista.
“Il riformista è solo e deriso da tutti” (Federico Caffè).
Secondo il professore Michele Salvati: un riformista intende sempre coniugare giustizia con libertà e “combattere ogni giorno, nel governo, nel Parlamento, nei partiti, sui media, le tante battaglie parziali di cui il riformismo si nutre”.
Oggi è un dato storico acclarato la lunga durata della quasi incomunicabilità tra le varie Calabrie, così diverse per tradizione storica, struttura economica, articolazione sociale, sin dal dopo terremoto di Reggio e Messina del 1908.
Luigi Ambrosi in un saggio che citerò spesso (Regionalizzazione e localismo) definisce “una fitta trama di istanze di natura territoriale” la competizione che prima della rivolta di Reggio del 1970 coinvolse anche altre città e province.
La nostra disputa con Cosenza e il suo nume tutelare Mancini (resta impresso nella memoria di tutti il suo comizio a piazza Madonnina di Nicastro) “sebbene non si espresse in forme conflittuali di rilievo”, si intrecciò con la questione degli investimenti industriali – in particolare del V centro siderurgico – e interessò diverse zone della Calabria, tra cui la Locride, facendo emergere tensioni infraprovinciali con Reggio.
A questo proposito, il ministro democristiano cosentino Riccardo Misasi aveva rivelato negli anni novanta di aver assunto un’iniziativa per convincere i catanzaresi dell’opportunità di concedere il capoluogo a Reggio, «in cambio di una concentrazione delle attività industriali-manifatturiere nella fascia centrale della Calabria, da Crotone sino a Lamezia Terme». Un progetto che non fu reso pubblico perché avrebbe potuto creare, secondo Misasi,
nuove spaccature tra la gente di Calabria. Lo schematismo proprio dei momenti sempre più semplificanti […] probabilmente avrebbe generato tanti altri fenomeni di “boia chi molla”. Avremmo potuto avere una divisione, o un’insorgenza a Lamezia o a Crotone, luoghi dove nella mia ipotesi, poteva, ad esempio essere prevista l’ubicazione del quinto centro siderurgico. Avremmo potuto, cioè, dividere la Calabria in quattro cinque pezzi: Reggio contro Catanzaro e viceversa; Crotone e Lamezia contro Catanzaro e magari a favore di Reggio; Gioia Tauro e i centri della Piana con Catanzaro e contro Reggio [Sgroj 1991, 211].
Esisteva, dunque, la consapevolezza degli effetti laceranti che le rivendicazioni territoriali e i conflitti infraregionali concentratisi nel momento di costituzione della Regione nel 1970 potevano avere sull’unità della Calabria, che storicamente possedeva un’identità regionale plurima e perciò debole.
Guido Crainz ha ricostruito come meglio non si potrebbe, almeno questo è il mio punto di vista, lo scenario.
“Nella lettura dei moti di Reggio e dell’Aquila non va dimenticato che in Calabria come in Abruzzo l’agitazione per il capoluogo è preceduta di alcuni anni da quelle per l’Università, che vedono protagoniste le diverse città e province, con cortei studenteschi e cittadini, blocchi stradali e ferroviari (cose inusuali per gli studenti prima del ’68). E vi partecipano, quasi sempre, anche le organizzazioni della sinistra. In Calabria scioperi studenteschi per l’istituzione di una università nella regione sono segnalati già dal 1966 a Catanzaro e Cosenza, e dopo la legge istitutiva si incentrano sulla sua applicazione e – soprattutto – sulla sua localizzazione, su cui il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) tarda a pronunciarsi. La mobilitazione cresce dunque durante e dopo il ’68, trovando momenti di fortissima acutizzazione nel gennaio-febbraio del 1970 sia nel Cosentino che nel Catanzarese (in modo particolare nella «sede candidata» della provincia, Lamezia Terme). In entrambe le province si succedono scioperi studenteschi che coinvolgono diversi centri e blocchi stradali e ferroviari a ripetizione, con il coinvolgimento di ampi settori della popolazione. Alla fine del gennaio 1970, ad esempio, dopo un intervento della polizia, a Lamezia Terme vi è una mobilitazione che coinvolge sino a 6000 persone, un corteo cui aderiscono partiti e sindacati, il vescovo e i commercianti, e poi un nuovo blocco dell’autostrada e della linea ferroviaria con migliaia di persone ecc.. “ ( « La stagione dei movimenti: quando i conti non tornano» -Rivista meridiana -Creare due, tre, molte università… )
L’esplosione dei particolarismi, che esercitano il loro diritto morale di fronte all’ingiustizia della politica, avviene su una grande trasformazione non governata (o governata senza una logica credibile che non sia quella clientelare e spartitoria), afferma Crainz.
“È fortemente simbolica, del resto, la vicenda stessa dell’ente regionale, che doveva essere il perno di un nuovo rapporto fra cittadini e istituzioni, lo strumento di nuove modalità della politica volte a sostituire quelle dello Stato burocratico e centralista: il nuovo ente nasce invece, nel 1970, già decrepito, con le stimmate dei vecchi vizi dello Stato e della politica (che quindi si moltiplicano)”.
PARTE 2^) La mediazione con cui si pose termine alla rivolta reggina, già declinante anche per la stanchezza diffusa nella popolazione, fu raggiunta il 16 febbraio 1971, quando il Consiglio regionale approvò l’ordine del giorno che recepiva una proposta del presidente del Consiglio, il democristiano Emilio Colombo: Catanzaro ricevette la sede della Giunta e il titolo di capoluogo mentre a Reggio fu destinata la sede dell’Assemblea; fu confermata l’indicazione di Cosenza a sede universitaria e l’assegnazione di stabilimenti industriali, in particolare il V centro siderurgico, alla provincia reggina. La contesa per il capoluogo tra Reggio e Catanzaro, d’altronde, era inscindibile da un’ampia controversia di natura territoriale sulle opportunità di sviluppo offerte dal governo, che risulta presente in Calabria con più marcate profondità temporale e articolazione spaziale.
Fin qui i fatti calabresi che fecero da sfondo alla disputa sull’ateneo conclusasi nel 1971. Da essi abbiamo avuto modo di imparare qualcosa? Noi giovani della Fgci andavamo a fare riunioni o volantinaggio sulla base dello slogan trasmessoci dal Pci: «L’università subito al posto giusto».
Alla domanda (scusa, ma qual è il posto giusto?) che prima noi giovani avevamo posto ai compagni più grandi (nel mio caso il referente era Gianni Riga) e che poi gli interlocutori ponevano a noi, la risposta era la seguente:
«Il Pci non intende contribuire al campanilismo e dunque ritiene che a livello centrale le forze politiche debbano trovare una mediazione nell’interesse della popolazione calabrese allo scopo di realizzare il più presto possibile il sogno dell’università calabrese».
Ponzio Pilato non avrebbe saputo far di meglio e Marx avrebbe concluso che la strada per l’inferno è lastricata di nobili intenzioni. Il Pci era un partito strutturato e nazionale, con una sua linea che dal centro scendeva verso le periferie. Per cui non esisteva che i comunisti lametini o quelli cosentini dicessero “il posto giusto è la mia città” mettendo in difficoltà il segretario regionale calabrese. Queste cose le facevano i notabili democristiani, ciascuno dei quali coltivava il suo orticello in collegamento con il capo corrente romano di riferimento.
Si osservi come sia indicativa la lettera personale (in Luigi Ambrosi. Regionalizzazione e localismo) di un senatore democristiano, ex presidente della provincia di Catanzaro, a un giornalista reggino per esprimergli il consenso a
“tutte le argomentazioni esposte a sostegno della tesi giusta che indica la piana Lametina, scartando la Montagna Cosentina [come sede dell’ateneo, Nda]. Mi auguro anche io che una intesa tra le due Province di Catanzaro e di Reggio Calabria valga a fuggire il pericolo di una soluzione pregiudizievole per l’intera Regione. Il Ministro […] ha dichiarato che soluzione da noi caldeggiata sarebbe più costosa e di più difficile realizzazione: evidentemente preferisce la montagna… per fare una cosa più modesta, meno costosa certamente, a carattere provinciale o addirittura intercomunale!”
Guido Crainz spiega bene che la «stagione dei movimenti» come quella di Reggio Calabria nacque da una promessa non mantenuta, da un riflesso di rabbia contro il depositario del potere locale incapace di farsi sentire a Roma. “Molte sono, certo, rivolte di campanile: resta però da capire perché le rivolte di campanile (o i «motivi di campanile», dentro le rivolte) diventino così importanti nella stagione stessa della riscoperta della politica”. La stagione del 1968.
D’altronde, proprio Giacomo Mancini, da ministro dei Lavori pubblici, aveva influenzato la scelta di localizzazione dell’autostrada A3 Salerno-Reggio a favore di un tracciato interno e montuoso, più disagiato e dispendioso di quello costiero e pianeggiante, che avrebbe però inglobato nel percorso la città di Cosenza, offrendole prospettive di crescita di sicuro ritorno elettorale [D’Antone 2007].
La scelta campanilistica di Mancini del percorso autostradale, ben prima dello scippo a Lamezia dell’università “residenziale come un campus americano”, ha condizionato questa nostra povera terra costringendo i lametini come tutti i calabresi a pagare pegno vita natural durante ai cosentini per tutti i loro spostamenti. C’era un percorso naturale sul Tirreno che col tempo si sarebbe dovuto completare con quello sullo Jonio (e la mitica 106). Ma la logica lasciò il passo alla pancia, il particulare prevalse sull’universale, e così come è avvenuto in tante altre regioni (a cominciare dalla Sicilia) la politica fu piegata dal potere del tornaconto personale.
E l’opposizione? Qui avviene il dramma che ancora paghiamo nel terzo secolo. Il potere lo esercita sul territorio il cacicco di turno, ma il Pci non si oppose anzi costruì quel consociativismo che (con la concertazione) è diventato il metodo sindacal-corporativo di gestione della cosa pubblica. Come ha scritto Antonio Carioti in un libro recente il Pci è stato «il partito ombra dell’Italia repubblicana». In Calabria la sostanziale subalternità del Pci alle scelte di Mancini, pur identificato come avversario, ha prodotto danni ancora oggi incalcolabili. Una subalternità che viene da lontano e coniuga accordi sottobanchi con grandi petizioni di princìpi. E’ preferibile che siano gli abitanti del Palazzo piuttosto che gli elettori a scegliere chi li dovrà governare (come insegna il Conte Bis), questa è stata sempre la politica del Pci, sin da quando subiva la “conventio ad excludendum” e pur tuttavia riusciva a saper conciliare lo stare all’opposizione con qualche favore ricevuto di nascosto.
Una autostrada tirrenica avrebbe velocizzato e resi più comodi gli spostamenti su gomma; l’area centrale Catanzaro-Lamezia con l’università, le terme, l’agricoltura e l’aeroporto nella piana sarebbe stato con i suoi servizi il baricentro della Calabria; Reggio sarebbe stata il capoluogo ideale; Cosenza-Rende, con il suo territorio che va dalla Sila sino al Pollino, sarebbe stato un centro innovativo, non meno di oggi.
L’arretratezza culturale della Calabria spiega la sua tradizionale arretratezza economica. I piagnoni di solito capovolgono questi termini per avanzare pretese risarcitorie. Per capirci, la linea della Svimez oggi alimenta da tempo una retorica risarcitoria, secondo cui le parti più dinamiche e avanzate del paese, che si trovano prevalentemente al nord, dovrebbero “restituire” al Mezzogiorno. Dove la restituzione si sostanzia, ovviamente, in risorse economiche. E’ la politica dell’elicottero, sussidi polverizzati a tutti. Contrapposta a questa visione ce n’è un’altra (L. Reichlin) che intende responsabilizzare la società meridionale ed evitare aiuti generalizzati, per cercare invece di individuare i casi di successo che esistono al Sud, per replicarli e costruirvi attorno lo sviluppo. Oggi infatti è tutto più chiaro, il fattore produttivo essenziale non è l’industria (come credevamo negli anni settanta), sono idee nuove, prodotti nuovi o processi nuovi. Tutti coloro i quali, qualsiasi lavoro facciano, dovunque vivano, restano affezionati alla tradizione e osteggiano l’innovazione, sono destinati a guadagnare sempre meno e vivranno in città sempre più povere. Prima sono stati i nostri paeselli calabresi a svuotarsi, a favore delle città, adesso si lasciano le città non innovative per trovare lavoro fuori dalla Calabria. Il lavoro e quindi il reddito ci sarà e c’è dove c’è innovazione. Questo vale per la Calabria come per qualsiasi regione, per l’Italia come per qualsiasi nazione. Forse solo con i vaccini ci stiamo avvicinando a capire il valore grande del “capitale umano” e della scienza. Ci voleva una pandemia per mettere in crisi il populismo dei politici incompetenti che non capiscono la complessità dei problemi.
Mentre l’industria tradizionale come quella tessile continua a delocalizzarsi in Paesi in via di sviluppo, l’industria dell’innovazione continua a concentrarsi in poche aree chiave del mondo. Un laboratorio biotecnologico o elettronico è piuttosto difficile da trasferire altrove, perché non si tratta di spostare solo un’azienda, ma un intero ecosistema. Con il mercato globale il valore di un’idea nuova non è mai stato così alto, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività. Innovare quindi è una necessità, anche se per sviluppare il potenziale di una nuova tecnologia serve tempo, a volte secoli.
PARTE 3^) Istruttivo fu il dibattito dentro il Pci successivo ai moti dell’Aquila del 1971. Aprì le ostilità il vecchio Longo, osservando amareggiato che «c’è molta gente che è insofferente verso quelli che comandano, tra cui mette anche noi»; altri presero malinconicamente atto che «siamo confusi nel mucchio» (Alinovi), o che «c’è la tendenza al Sud a dire: i comunisti sono come gli altri» (Minucci); e altri ancora annotarono – a più riprese – che al Sud si diffonde la tendenza a dire «facciamo come a Reggio», di fronte all’inefficacia della lotta sindacale e politica per le riforme (Romeo e altri).
Nel caso di Lamezia “l’università subito al posto giusto” altro non era che un modo furbo per l’ennesimo privilegiamento degli accordi di vertice. Non a caso Pajetta – ancora in relazione al disastro dell’Aquila – disse: «si crede che basti mettersi d’accordo con i Dc e il Psi per risolvere tutto».
Osservava criticamente già allora Vittorio Foa, collocando i fatti di Reggio in un contesto più generale, che vi era sullo sfondo un «nuovo rapporto fra maggioranza e opposizione», con una «onesta regola del gioco» in cui la maggioranza stessa fissa i limiti dell’opposizione, e in cambio tiene un po’ conto delle esigenze da essa proposte. Qui, già prima del «compromesso storico» (e del suo rapporto con la riflessione sul Cile) è possibile collocare la svolta più decisa in direzione del consociativismo: il tutto negli anni di più forte tensione e conflitto sociale.
Mi pare di capire che comincia allora, negli anni settanta, quel processo di chiusura dei partiti che ci ha portato al populismo, lo segnala l’assenza di risposte positive alle domande che i movimenti esprimevano. Le domande di trasformazione – è stato detto – non sono state «intercettate» dal sistema politico.
Le mancate risposte politiche degli anni settanta contribuirono all’avvitarsi di differenti processi (ivi compresa la trasformazione dei «partiti in imprese predatorie e delle imprese in partiti»), in una sindrome che porterà poi alla necessità di una forte «spallata» per non affondare definitivamente. La «spallata» è poi avvenuta, prima con Antonio Di Pietro, poi con Umberto Bossi (Carlo Donolo). Fino ai giorni nostri quando la grillizzazione del mezzogiorno ha trovato nel populismo la più conseguenziale e logica rivolta alla politica clientelare ed eterodiretta dalle mafie.
Oggi abbiamo capito bene a cosa abbia portato quella visione che voleva risolvere e rinchiudere l’intera società nel «sistema dei partiti» – o a privilegiarne comunque le logiche. Da un lato la prospettiva dell’incontro fra le grandi componenti della società italiana (cattolica, socialista e comunista) ricondotte alla loro espressione politica organizzata; dall’altro la contemporanea affermazione della centralità dei partiti. Si pensi solo a quanto il Pci abbia tentato di evitare il referendum sul divorzio del 1974 che confliggeva con l’ideale che poi Berlinguer avrebbe definito “compromesso storico”.
Un sistema dei partiti sempre più autoreferenziale e dentro cui crescevano processi degenerativi ci ha portato al vaffa della politica e all’ “uno vale uno”, dunque alla politica squalificata affidata a sprovveduti ed arrivisti.
Lamezia aveva ragione, sarebbe stato il posto “giusto” per il campus universitario calabrese agognato da Andreatta, ma nessun riformista allora seppe assumere e difendere la decisione giusta. La decisione diventa giusta se prima si conosce e poi si delibera (come voleva Einaudi), se si guarda all’interesse generale e non a quello particolare, se si evitano gli accordi di vertice e i giochetti del “do ut des” di cui il clientelismo meridionale rappresenta il simbolo. La decisione è giusta se è la stessa sia se si sta all’opposizione che al governo.
Noi italiani siamo un popolo di improvvisatori che non amano la programmazione. Che non sanno, ieri come oggi, fare le scelte giuste. Fanno le scelte convenienti o opportune, quelle negoziate sulla base dei rapporti di forza. I problemi li affrontiamo quando si presentano, non intendiamo prevenirli (la nostra terra ballerina calabrese innanzitutto ci dovrebbe indurre a fare quel che fanno in California o in Giappone) in un misto di fatalismo e superstizione che equipara l’ignoranza all’innocenza.
Quando invocavamo l’università, o la Provincia, noi lametini, ricordiamocelo sempre, siamo stati etichettati come “campanilisti”. Forse abbiamo finito per crederci davvero o forse siamo un popolo di gente pacifica abituati ad abbassare sempre la testa di fronte agli ordini del boss di turno o all’invasione dello straniero conquistatore.
In realtà siamo stati vittima di un sistema politico incapace di capire quale fosse “il posto giusto” per la Calabria, non per Lamezia.
La politica (destra e sinistra e centro assieme in un legame indissolubile) ci ha sacrificato sino a strapparci quello che solo la geografia ci aveva donato, la centralità regionale. Siamo stati civili ed educati, ma questo non significa che dobbiamo smetterlo di essere, in fondo ancor prima di Lamezia ha perso l’intera Calabria.
Quelli che fanno tenerezza sono quelli che nel terzo secolo ancora predicano l’asse Lamezia-Catanzaro. Per sposarsi bisogna essere in due e non si vive di rimpianti. Dal legame con Catanzaro, come detto, poteva nascere l’area centrale della Regione, con l’università, i servizi, l’aeroporto, il mare e il turismo termale. Catanzaro non lo ha voluto ed è stato un errore tragico. Ha preferito svilupparsi verso Soverato e Botricello, verso lo jonio; basare tutto il suo modello economico sul terziario pubblico, sulle grandi opere pubbliche e sulla sanità, accentrando tutte le risorse e spoliando i territori vicini.
Non possiamo, rebus sic stantibus, che prenderne atto, noi lametini. Catanzaro ha scelto uno sviluppo senza Lamezia e senza la piana lametina, monopolizzando la gestione dell’aeroporto che ha sede sul nostro territorio. Catanzaro ci ha storicamente voluto “periferia” e considerato un suo quartiere o Municipio, senza capire che le due città, pur mantenendo la propria autonomia, avrebbero potuto integrarsi con reciproco vantaggio. Ma è andata così ed è inutile piangere sul latte versato. Da quel Pci che appoggiò Mancini invece di Lamezia sacrificando la decisione giusta sull’Università calabrese abbiamo imparato che “destra” e “sinistra” possono non avere più significato nel mare del “consociativismo”; che il riformismo ( o l’opposizione, pacifica e senza far ricorso alla violenza) su ogni questione, piccola o grande che sia, deve “saper” trovare una soluzione giusta. Per sapere quale sia bisogna studiare in modo approfondito le problematiche e affidarsi a veri esperti. Che un ministro degli Esteri, per fare un esempio, conosca l’inglese, il popolo italiano potrà considerarlo un giorno scontato o gli accordi tra partiti e sigle potranno ovviare a curriculum inconsistenti? La scelta di un buon ministro o del posto giusto per l’ateneo calabrese o del dove far passare l’autostrada a quale “metodo” devono essere improntate?