(Corsera, 14/2/21) A volte certi eventi diventano simbolici aldilà dell’intenzione dei protagonisti. Il primo atto del primo Consiglio dei ministri presieduto da Mario Draghi ieri è stato la nomina come sottosegretario a Palazzo Chigi di Roberto Garofoli: l’alto funzionario che era così inviso a Giuseppe Conte, durante il governo giallo-verde, che preferì lasciare il posto di capo di gabinetto dell’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria. Oggi Garofoli rientra come collaboratore più stretto di Draghi, forte anche di 5 anni come capo di gabinetto all’Economia. Ha anni di collaborazione strettissima con Daniele Franco, il nuovo ministro dell’Economia, quando questi era ragioniere generale dello Stato. Ed entrambi hanno anni di lavoro quotidiano con Alessandro Rivera, direttore generale del ministero.
Le scadenze
Il fatto che quei tre siano affiatati tornerà utile a loro e all’intero governo, perché siamo appena al secondo giorno e il tempo stringe. Draghi stesso lo ha lasciato capire all’intero Consiglio dei ministri nelle poche parole che ha pronunciato ieri. Entro sei settimane — in realtà meno — l’Italia deve presentare a Bruxelles un Recovery plan nazionale che era così incompiuto nelle riforme previste, negli ingranaggi di funzionamento e nelle metriche degli investimenti da aver provocato la caduta di Conte.
Draghi, Franco e Garofoli sanno che la Commissione Ue non respingerà il piano italiano. La forza politica del premier in Europa e la competenze della squadra non rendono credibile uno scenario del genere. Sei settimane però non sono molte per un progetto che sfrutti al meglio ogni singolo euro dei 209 miliardi concessi all’Italia con Next generation Eu, e non un solo euro può andare sprecato: nelle più recenti previsioni di Bruxelles, l’Italia con la Grecia è il solo Paese dell’area euro che non torna ai livelli di reddito del 2019 neanche nel 2022 e, sempre con la Grecia, ha il debito pubblico più alto.
Di qui le riflessioni già iniziate nel governo su come accelerare sul Recovery. Un primo orientamento è di non buttare quanto fatto fin qui dal governo Conte. Molti progetti sono interessanti però mancano degli indicatori chiave di performance, una condizione esplicita per i cosiddetti Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr). Quei documenti vanno completati con i rendimenti attesi degli investimenti, gli obiettivi numerici di ogni singolo progetto e quelli obiettivi generali per l’economia collegati a ciascuno dei progetti. Non bastano ipotesi, servono dati solidi. Per questo è molto probabile che decine di esperti di programmazione di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia vengano messi al lavoro dai prossimi giorni, coinvolgendo il capo dell’Ispettorato Affari economici Alessandra Dal Verme.
Non è detto però che tutto ciò che era nei vecchi piani resterà nei nuovi. Chi ha parlato con Daniele Franco e vari altri ministri di recente — prima che fossero chiamati da Draghi — ha notato in particolare perplessità sui bonus immobiliari. Nella parte ambientale per esempio il Pnrr italiano prevede 29,3 miliardi per detrazioni al 110% alle ristrutturazioni immobiliari per “efficienza energetica e riqualificazione”. Questo significa di fatto remunerare i proprietari di immobili perché facciano degli interventi, quando in base agli standard internazionali di solito lo sgravio è al 75%: l’incentivo ai lavori rimane, senza che sia costoso e socialmente regressivo come nel vecchio piano italiano. Molto probabile dunque che su questi aspetti si apra una riflessione.
Gli appalti
Restano poi le riforme che devono andare con il Recovery. Nel governo Draghi siedono Roberto Cingolani, Vittorio Colao e Enrico Giovannini, che pochi mesi fa stesero proprio il piano Colao commissionato e poi ignorato dal governo Conte. Lì dentro ci sono proposte precise del tipo che Bruxelles attende: una semplificazione drastica del codice degli appalti sui progetti di infrastrutture e un regime speciale per quelle di carattere strategico; l’uso sempre maggiore di procedure telematiche e silenzio-assenso nell’amministrazione, vietando la richiesta di documenti specifici quando basta un’autocertificazione, con l’estensione delle nuove procedure a salute, ambiente, paesaggio e territorio.
Poi c’è il tema più vecchio e delicato: la finanza pubblica. Daniele Franco è convinto che con il tempo — non subito — il governo debba tornare a un avanzo di bilancio stabile almeno dell’1,5% del prodotto lordo, prima di pagare gli interessi. Nessuna nuova spesa varata in questa pandemia può essere per sempre. Perché la posta del governo Draghi non è il destino del suo premier fra un anno. È la tenuta dell’Italia fra due o tre.