Forse di nessuno scrittore latino usiamo nel linguaggio di tutti i giorni, e per lo più inconsapevolmente, frasi, locuzioni, modi di dire, come di Quinto Orazio Flacco. Che si tratti del carpe diem, un invito di pacata saggezza epicurea travisato nel senso e convertito in uno slogan pubblicitario, o di una questione futile e perciò detta di lana caprina, o della montagna che partorisce il topolino, o della aurea mediocritas [aurea medietà], e così via, questa presenza così massiccia di Orazio nel nostro parlare quotidiano ci dice due cose: da un lato l’enorme fortuna dell’opera di questo poeta nella cultura diffusa, fin dal Medioevo (che ne apprezzò soprattutto la produzione d’impronta morale delle Satire, come attesta lo stesso Dante), e dall’altro la concentrazione espressiva del suo stile, che si traduce in locuzioni incisive e memorabili.
Maestro della forma e dell’espressività
C’è a questo proposito un passo famoso di Nietzsche (1889), che recita: «Fino ad ora nessun poeta mi ha procurato un rapimento artistico uguale a quello che ho subito provato alla lettura di un’ode di Orazio… Questo mosaico di parole, dove ognuna per il suo timbro, per il suo posto nella frase, per l’idea che esprime, fa raggiare la sua forza a destra, a sinistra e sull’insieme».
Un maestro della forma, quindi, che con il minimo di parole, ma attraverso la loro studiata collocazione nella frase ottiene il massimo della forza espressiva – una collocazione realizzata, ad esempio, attraverso quella che, con un’espressione coniata da lui stesso, si chiama callida iunctura [nesso astuto], un accostamento di parole pregnante e originale, sorprendente. Proprio come nella metafora del carpe diem – il cui senso letterale è «spizzicare, spiluccare il giorno» – nell’ode a Leuconoe (1.11), un componimento che nella sua intensa brevità, concentrazione, perfezione formale, è una sorta di Infinito leopardiano della poesia latina.
Maestro della difficile arte del vivere
Ma oltre e più che come maestro della forma, Orazio ha conquistato nei secoli i suoi lettori come maestro dell’arte di vivere. Un’arte difficile, specie per chi, come Orazio, di bassa estrazione sociale – suo nonno era uno schiavo liberato – arriva a Roma dalla lontana Venosa e si trova a vivere in un’epoca di conflitti, guerre civili, scontri tra potenti. Grazie alla eccellente educazione voluta per lui dal padre e al suo talento personale, si procurerà l’apprezzamento e l’amicizia di Mecenate, che lo introdurrà presso Augusto. Potrà così ‘allargare le ali’ e conquistare una fama senza confini, come dice con orgoglio nell’ultima delle Epistole del primo libro, che oltre ai dati autobiografici fornisce un autoritratto anche fisico, quasi una foto, dell’autore (e sembra così anticipare la ‘quarta di copertina’ dei nostri libri moderni).
Ad Augusto, contro cui da giovane aveva combattuto a Filippi in omaggio ai propri ideali repubblicani (delle asprezze e tensioni di quegli anni restano parecchi echi nell’opera giovanile degli Epodi), Orazio è grato per aver messo fine alla stagione sanguinosa delle guerre civili riportando la pace, e per avergli garantito protezione e sostegno economico. Ma il favore dei potenti, che gli permette di vivere dedicandosi solo alla poesia tra Roma e il suo buen retiro, la casa di campagna in Sabina regalatagli da Mecenate, contiene un’insidia. La fama e il prestigio di un grande poeta possono diventare, agli occhi di quegli stessi potenti, uno strumento influente di cui servirsi a scopo celebrativo, e di queste aspettative, più o meno esplicite, sul proprio conto da parte del potere augusteo, magari attraverso l’amico Mecenate, Orazio percepisce più volte la pressione, cui oppone però una garbata ma ferma resistenza.
Dibattuto tra il rischio di apparire ingrato verso i suoi benefattori, e la volontà di preservare autonomia e dignità personale, Orazio rifiuta – anche per temperamento personale e una scelta di vita improntata a un blando epicureismo – un impegno politico diretto e aperto a fianco di Augusto, che lo avrebbe anche indirizzato verso generi letterari a lui non congeniali, come mostrano gli esiti sia di alcune delle sue odi civili e religiose, sia soprattutto del Carmen saeculare, commissionatogli per la celebrazione dei Ludi del 17 a.C., cioè un tipo di poesia che non è nelle sue corde, e rivela una certa freddezza decorativa di maniera.
Poeta moderno
Le sue propensioni di gusto e le sue convinzioni in fatto di teoria letteraria emergono anche in una sezione importante della produzione oraziana, concentrata soprattutto nel secondo libro delle Epistole. Vi spicca la lettera ad Augusto, dove il poeta esprime con garbo il suo forte scetticismo sull’intenzione del principe di rilanciare il teatro comico di tipo plautino come forma di letteratura popolare, e indirettamente con finalità politiche. Ma soprattutto la celebre Ars poetica, il più importante trattato teorico antico insieme alla Poetica di Aristotele, e che già a partire dal Medioevo esercitò un’enorme influenza sulla cultura europea, in cui Orazio esprime la propria consapevolezza di poeta moderno che ha portato a maturazione le forme della grande poesia greca classica e della ‘rivoluzione’ ellenistico-neoterica.
L’analogia tra l’invito di Orazio alla semplicità naturale e alla misura (est modus in rebus [c’è una misura nelle cose] suona un’altra sua massima famosa), dettato soprattutto dal suo epicureismo e dal suo gusto personale, e il richiamo alla sobrietà dei costumi che ispira il ritorno al mos maiorum [costume degli antenati] promosso dal principato non deve far pensare a un’intenzione del poeta di allinearsi alle direttive etico-politiche augustee, o addirittura farsi loro portavoce (come in passato ha preteso chi ha cercato di farlo passare per un supino propagandista di regime). La sua è una riflessione personale dettata dalla propria sensibilità, una meditazione pacata e aperta al sorriso, maturata attraverso la propria esperienza del mondo e l’osservazione critica, e autocritica, della realtà umana. L’obiettivo che Orazio persegue e propone è una morale di autosufficienza e di libertà interiore (quindi anche una rivendicazione di autonomia dalla dimensione civico-politica in favore della vita privata), che costituirà un importante punto di riferimento per le classi intellettuali della storia europea.
Il poeta dell’equilibrio e della visione terrena
Considerato da una lunga tradizione classicistica come il poeta dell’equilibrio, della compostezza imperturbabile, Orazio rivela invece il segreto del suo fascino duraturo, al di là dei mutamenti di gusto che nelle varie epoche ne hanno condizionato la fortuna, proprio nel suo contrario, nel dare espressione alle inquietudini legate alla precarietà della condizione umana, alla morte incombente (pulvis et umbra sumus [siamo polvere e ombra] è un’altra sua famosa disincantata definizione della condizione umana), alla perenne e inappagata ricerca di sottrarsi ad ansie e paure (specie nelle Odi e nelle Epistole, le sue opere più mature e riflessive, e più aperte a una calma introspezione).
Ansie di cui Orazio coglie i segni nell’irrazionalità dei comportamenti umani, dei suoi tempi e di sempre, come ad esempio l’ambizione smodata e molesta, come la tratteggia nella famosa satira del seccatore, o la febbre dei viaggi, visti come una continua e vana fuga da sé stessi (caelum, non animum, mutant qui trans mare currunt [cambiano il cielo, non il proprio animo, quelli che continuano ad attraversare i mari]), e di cui cerca un antidoto rifugiandosi nella poesia e nella compagnia degli amici, nel piccolo orizzonte della vita quotidiana. Il suo è un invito a gustare giorno per giorno i piaceri dell’attimo, la breve misura di tempo che ci è consentito godere (è appunto il senso del carpe diem), senza investire troppo o farsi illusioni sul futuro. La sua visione del mondo è totalmente terrena, senza prospettive religiose o oltremondane, ma comunque aliena da reazioni drammatiche o pose estreme. Come lo è in generale il suo atteggiamento verso le passioni, quale ad esempio l’eros (i ‘dolci amori’ giovanili), che egli vive con il distacco, privo di drammi o rancori, del naufrago esperto e disilluso che si è salvato dalla tempesta e ha «appeso le vesti bagnate al dio potente del mare», come si esprime nella celebre ode 1.5, a Pirra, l’elegante fanciulla un tempo amata e che egli vede ora impegnata ad attrarre altri giovani e ingenui amanti, prevedibilmente presto attesi da un destino simile al suo.
