Ieri sera da Bruno Vespa il segretario del pd Letta ha avuto il coraggio di dire che il “reddito di cittadinanza” si è rivelato spesso un modo per incrementare il lavoro nero, che si aggiunge al sussidio. Questa verità, una grande scoperta dell’acqua calda, già enunciata da tutti i critici della misura volta per ringraziare i meridionali per la messe di voti ricevuti, finalmente è approdata su Rai1 ma chissà se un giorno sarà mai possibile ascoltare da un politico la denuncia del doppio lavoro dei dipendenti pubblici. Credo sia più facile avvistare un Ufo.
Il grande tema di come rendere più produttiva ed efficace la spesa del pubblico impiego, qualcosa come 170 miliardi di euro all’anno, infatti è sempre sul tappeto, così come la riforma del fisco o la lotta all’evasione fiscale. Temi ben trattati da accademici e studiosi ma impossibili da risolvere per la politica italiana.
Lo si è cercato di affrontare attraverso riforme di carattere strutturale (dalla cosiddetta “Riforma Brunetta” del 2009 alla riforma Madia, alla “Buona Scuola”), ma non sembrano rinvenirsi effetti positivi. Anzi, l’eccesso di regole e di interventi normativi può persino rivelarsi controproducente. Bisogna dunque agire attraverso interventi normativi mirati, ma soprattutto attraverso piani di cambiamento organizzativo rivolti alle singole amministrazioni. Questa strada è l’unica possibile per realizzare i guadagni di produttività sperati, in un quadro di compatibilità finanziarie e di bilancio. Ogni riforma della PA ha il limite (sottolineato da molti studiosi) di aumentare il potere della burocrazia pubblica, che scrive i regolamenti di attuazione scaricando sui cittadini l’onere dell’adempimento di impegni molteplici che sono chiamati ad adempiere.
Ciò induce i cittadini a investire una quantità enorme di tempo, sovente sottratta al lavoro. Ne consegue che la produttività non solo non cresce nel settore pubblico, ma riduce quella del resto dell’economia.
Basta fare qualche esempio: il primo è l’autocertificazione negata da tutti gli uffici e le difficoltà create nel contatto telematico, reso difficile da siti incomprensibili e talvolta apertamente ostacolato dalle burocrazie che pretendono documenti cartacei, non di rado certificati da qualche altra autorità pubblica.
Il secondo è ancor più banale, quello di genitori che lavorino uno nel settore pubblico e l’altro in quello privato. Quale dei due non si recherà al lavoro la mattina per affrontare l’urgenza di un proprio figlio o congiunto? E’ chiaro, il dipendente pubblico.
Infine abbiamo il caso, mai avvertito come una vera emergenza nazionale, del dipendente Arlecchino servo dei due padroni. Malgrado la storia di Truffaldino sia raccontata da Goldoni nel settecento, epoca in cui la borghesia stava emergendo, e malgrado che oggi come allora l’ingordigia continui a indirizzare le azioni umane, si continua a consentire che un servitore dello Stato sia al contempo portatore di un interesse privato, sia esso professionale, artistico, sportivo, umanitario, culturale o, attraverso prestanomi, commerciale. I nostri Truffaldini si riempiono la pancia lavorando la mattina per lo stato, in un ministero, una scuola, un ente, una partecipata, e il pomeriggio nel proprio ufficio, anche se sulla porta hanno messo il nome della moglie, del figlio, della suocera o di un sodale. E magari fosse così, perché il guaio sarebbe limitato. In realtà non c’è, non ci può essere separazione temporale e così i padroni, Beatrice e Florindo, sono vittime insieme delle bugie, dell’ingordigia e della scaltrezza dell’abile servitore. Nel frattempo ci si lamenta per la disoccupazione, soprattutto giovanile, facendo finta di non sapere che la scarsa produttività della PA è il risultato del doppio lavoro di una parte dei dipendenti pubblici intrecciatosi con il grave ritardo, più grave in alcuni settori ed in alcune aree geografiche del Paese, nei processi di innovazione e modernizzazione del settore pubblico.
Basterebbe immaginare (uno scenario davvero utopico, ne siamo tutti convinti) quanto migliorerebbe l’efficienza e la produttività se ogni dipendente pubblico non potesse svolgere alcuna attività privata. Quante opportunità nuove per i giovani, a patto che siano selezionati con seri concorsi pubblici, come prescrisse la costituzione tanti anni prima che si aprisse la stagione del disprezzo del merito, considerato un portato del neoliberismo.
Un’ultimo richiamo vorrei fare (per sport) al doppio lavoro ancora consentito agli insegnanti italiani, retaggio di un tempo lontanissimo in cui si ricercavano professionisti per farli insegnare al mattino nelle scuole (avvocati, ingegneri, notai…). Una vergogna senza limiti sulla quale la politica a caccia di consensi ha smesso da tempo di interrogarsi. Basti pensare che due deputati “verdi” durante il governo Prodi sono stati gli ultimi a presentare un emendamento in parlamento per “costringere” i liberi professionisti quantomeno a mettersi in “part-time”. Fu l’ultima volta in cui l’assemblea votò contro interessandosi della questione. Da allora il silenzio, nel frattempo piangiamo ipocritamente la disoccupazione giovanile consentendo il doppio lavoro ad insegnanti che semplicemente non insegnano e ottengono uno stipendio per poter farsi qualche week-end a spese dello Stato.