Il nuovo segretario Enrico Letta ha detto molte cose serie e condivisibili su linea politica, programmi e valori del Partito democratico, le cose che è normale attendersi da un partito riformista moderno e da una sinistra liberale simili a quelli oggi al governo negli Stati Uniti e in una parte significativa del mondo libero, dunque inaudite in quella sede, perlomeno negli ultimi anni.
Ma la più inaudita di tutte l’ha detta alla fine – letteralmente inaudita, nel senso che proprio in quel momento qualche seguace di Goffredo Bettini deve avere staccato la spina e fatto saltare la connessione Internet (per fortuna c’erano le agenzie) – quando, dopo avere spiegato che ci vuole «un nuovo centrosinistra», ha detto che «questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con i Cinquestelle che saranno guidati da Giuseppe Conte, a cui mando un saluto affettuoso». Permetteteci di unire al suo anche il nostro saluto affettuoso a Conte, anzi più che affettuoso addirittura gioioso.
In due soli minuti – precisiamo a beneficio dei tanti analisti che faticano a elaborare il lutto per l’improvvisa scomparsa del TrisConte – Letta ci ha detto dunque due cose: la prima è che il nuovo centrosinistra di cui parla lui, diversamente da quello di cui parlavano fino a ieri Nicola Zingaretti, Andrea Orlando e gli altri volenterosi complici del populismo, non comprende il Movimento Cinquestelle (con esplicito riferimento all’articolo 49 della Costituzione, secondo cui i partiti devono essere democratici, non associati).
La seconda cosa, conseguenza della prima, ma non meno esaltante della prima a sentirla esplicitare dal pulpito nazarenico, tanto per il merito quanto per il modo sadicamente democristiano in cui l’ha formulata, è che il rapporto con i grillini non è affatto scontato: «Noi a questo incontro ci andremo non sapendo ancora come sarà il Movimento Cinquestelle guidato da Conte, ma andremo con rispetto e attenzione, che io penso saranno tipiche del nostro modo di essere».
Alla notizia della possibile investitura, Linkiesta ha subito consigliato a Letta di chiudere la stagione della guerra civile nel Pd e di aprire le porte a tutti, da Calenda a Renzi, da Bersani a Bonino. Quindi è stato entusiasmante sentirgli dire all’Assemblea nazionale: «Parlerò con tutti coloro che sono interessati a un dialogo: parlerò con Speranza, con Bonino, con Calenda, con Renzi, con Bonelli, Fratoianni, con tutti gli altri possibili interlocutori anche nella società».
L’altra cosa formidabile del discorso di Letta è il fatto che, diversamente dal predecessore Zingaretti, abbia abbandonato i vestiti a lutto, the trappings and the suits of woe, abbia smesso di cercare nella polvere le tracce del governo precedente e abbia scandito finalmente che «il governo Draghi è il nostro governo» e che il Pd deve esserne «il motore».
Insomma, un altro saluto affettuoso a Conte e ai suoi nostalgici amici, cui verrà sottratto anche la ridotta del collegio di Siena, offerto invece a Letta in modo da evitare alla sinistra democratica l’umiliazione di quel nuovo Mugello che, fino a pochi giorni fa, avrebbe dovuto prefigurare il ritorno trionfale di Giuseppi, come allora lo fu per Tonino Di Pietro.
La nave dell’Italia di Draghi, con il Pd di Letta, ha finalmente ritrovato la rotta verso l’occidente liberaldemocratico. La guerra è finita e noi sostenitori della lotta su due fronti contro il bipopulismo perfetto (centrodestra a guida leghista da un lato, centrosinistra a egemonia grillina dall’altro) possiamo finalmente deporre le armi, almeno per un po’, e andare a festeggiare.
Quanto agli argomenti degli ultimi irriducibili gazzettieri del contismo, secondo i quali Mario Draghi sarebbe uguale a Giuseppe Conte e persino il piano vaccini del generale Figliuolo sarebbe identico a quello dell’ex commissario Arcuri (cambia solo il numero dei siti vaccinali, ha scritto, in un empito di comicità involontaria, il Fatto quotidiano: o era il Foglio?), tra qualche mese, se tutto va bene, non si troveranno più nemmeno nei giornali del ”quando c’era lui, caro lei” (non giurerei sul Fatto, ma confido nel Foglio). Sono piccoli e folcloristici fuori programma che non cambiano certo il panorama. Consideriamoli come le risse scoppiate qua e là alla vigilia del rientro in zona rossa: l’ultima occasione di menare le mani colta al volo da piccoli gruppi di scalmanati, nostalgici e avventati, eppure perfettamente consapevoli che la festa è finita.