Io e Cacciari li’ dove abita solo Dio

Massimo Cacciari (1944) e’ stato due volte sindaco di Venezia, dal 1993 al 2000 e poi dal 2005 al 2010. Nonostante due esperienze amministrative concrete e tutto sommato positive, anche se di fatto il vero sindaco di Venezia, come mi diceva un amico veneziano, era il suo vice Michele Vianello, il filosofo e’ ben conosciuto per le sue apparizioni televisive. Dove risulta sempre se non convincente, dotato di arte argomentativa.

Per esempio, pochi giorni fa e’ stato a Catanzaro al Liceo Galluppi e intervistato sulle proteste pro-Palestina che stanno prendendo piede in diverse parti del mondo, Italia compresa, ha detto: «Negli Stati Uniti c’è stata una repressione del movimento molto sconsiderata da parte di alcuni dirigenti dell’università, in particolare alla Columbia. Ma in Italia c’è un movimento, c’è protesta. Il problema è che questi ragazzi non mirano bene: la loro protesta può dare adito a equivoci, a strumentalizzazioni. Dovrebbero sapere distinguere meglio Israele da Netanyahu, palestinesi da Hamas, cioè dovrebbero operare delle distinzioni perché la protesta sia efficace e perché il maggior numero possibile di persone possa condividerla». Quanto al ruolo della politica in questi processi, per Cacciari il problema è che «i partiti non ci sono, lo dichiarano addirittura che non ci sono. Quando un partito dice “mi presento Giorgia, mi presento Lilli, mi presento Pincopalla”, è come dichiarare che non c’è partito. Si era mai sognato qualcuno di dire adesso “mi presento Pci, vota Berlinguer” oppure anche “Forza Italia vota Berlusconi”? Questa personalizzazione è partita con Berlusconi, chiaramente, ma è andato sempre peggio, sempre peggio. E’ sempre più vuota, perché, mentre bene o male, Berlusconi era un leader, ora, se togli la Meloni… Ed è incredibile che anche la Schlein abbia solo pensato di fare lo stesso».

Ho citato il Cacciari “televisivo” per significare che ci sono due Cacciari, non uno solo. Quello televisivo e’ comprensibile e fa riflettere, poi c’e’ il filosofo, che invece e’ incomprensibile. Io sono uno che ha provato a leggere qualche suo libro  e ha dovuto desistere perche’ dopo pagine e pagine non capivo assolutamente nulla. Poco male, non e’ che se mi metto a leggere un libro di cibernetica o sulla fisica quantistica capisco qualcosa, ci sta. Solo che poi una volta a Vibo andai a sentire una conferenza di Cacciari su un argomento filosofico e compresi: il suo linguaggio da filosofo e’ volutamente oscuro, ancor di piu’ di quello di Emanuele Severino (1929-2020), e pertanto ho capito che io posso arrivare a leggere un filosofo come Maurizio Ferraris (1956) o Gianni Vattimo (1936-2023) o Giorgio Agamben (1942), ma Cacciari non fa per me.

Nella vita ho conosciuto altri come Cacciari che sono “volutamente oscuri”, pertanto una cosa non ho mai capito e adesso provo a spiegarla. Per me ci deve essere una differenza tra scrivere e parlare, tra il linguaggio specialistico che uno usa in un libro, destinato ad un pubblico di lettori specializzati, e il linguaggio che uno usa tenendo una conferenza. Se un filosofo tiene una conferenza pubblica su, mettiamo, Socrate, deve ipotizzare che tra il pubblico possa esserci almeno uno solo che non sia uno specialista e sia capitato la’ per caso e dunque dovrebbe anche rivolgersi a lui, rendendo la materia alla sua portata. Insomma, ci deve essere una differenza di comunicazione tra una conferenza pubblica in una libreria e un congresso medico o un seminario all’universita’. Invece ci sono filosofi o altri specialisti che si rifiutano di “divulgare” preferendo vestire la corazza dell’oscuro linguaggio specialistico. A me la questione e’ sempre parsa di interesse psicanalitico piu’ che di scienza del linguaggio.

Finalmente sono dovuto arrivare a questi giorni per rinvenire sul Foglio un articolo del critico letterario Alfonso Berardinelli (1943), interessante perche’ tenta di spiegare su cosa si basa l’oscurita’ filosofica di Cacciari (1) contrapposta al Cacciari (2) televisivo. Berardinelli si occupa del suo ultimo libro,  Metafisica concreta (Adelphi, euro 36), dopo aver gia’ scritto Dell’inizio (1990) e Della cosa ultima (2004). “Titola “Metafisica concreta”, ma si tiene ben lontano dalla realtà. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia, il professore preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk-show.”

Ci sono due problemi, secondo AB. 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

AB tenta di capire perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia e si presenta come chi va oltre i confini della filosofia. Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione?

La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale.

La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono. Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica.

Insomma, la metafisica, come disse una volta Max Horkheimer, è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento.

Le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari.

Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla.

AB accosta infine Cacciari a un intellettuale del Novecento che ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.
Pubblica accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.
Schmitt: “Mi sentivo superiore”.
Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.
Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania.

Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere.

Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk-show.

La spiegazione di AB mi pare possa essere una chiave di lettura del doppio Cacciari. Concludo dicendo che se nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, nella vita quotidiana la persona Cacciari ipotizzo che sia tutta da scoprire. Una volta gli scrissi invitandolo a tenere una conferenza nella scuola che dirigevo. Accompagnai l’invito naturalmente esplicitando l’argomento e motivandolo. Bene, non solo Cacciari mi rispose ma fu cosi’ cortese e accurato da spiegarmi gli impegni che non gli consentivano di arrivare in Calabria e mi specifico’ il periodo in cui avrebbe potuto esserci (scadenza che poi fui io a non poter rispettare). L’impressione che ho avuto davanti a questa lunga risposta scritta data ad un illustre sconosciuto (avrebbe potuto non rispondermi o essere molto piu’ tranchant) e’ molto positiva perche’ la disponibilita’ umana si valuta da piccoli trascurabili particolari.