G. Biondi (Indire): la scuola italiana

(Da Origami, la Stampa) Giovanni Biondi ha iniziato a insegnare nelle scuole a 20 anni. A 29 era dirigente scolastico. Dall’anno seguente si è occupato della Biblioteca di Documentazione Pedagogica. Oggi, da Presidente di Indire, Istituto nazionale documentazione e innovazione ricerca educativa, organo del ministero dell’Istruzione con sede a Firenze, gode di un osservatorio privilegiato sui processi scolastici. A lui chiediamo di fare un punto sulla situazione.

Professor Biondi, come procede il cambiamento nella scuola? 

A macchia di leopardo, come per ogni grande sistema quale è la scuola. Con il progetto Avanguardie Educative abbiamo raggiunto quasi 700 istituti di ogni ordine e grado, circa il 10% del totale. Ognuna di queste scuole mette in atto una o più idee innovative da una lista di quindici: come lo Spaced Learning (l’apprendimento intervallato) che scorpora l’ora di lezione in momenti di concentrazione e distensione o la Flipped Classroom (la classe capovolta) dove la lezione diventa compito a casa e il tempo in classe è dedicato all’interazione con gli studenti. Ma ci sono tante iniziative degne di nota, come Book in Progress o Scuole Senza Zaino. La domanda però non è tanto a che punto siamo, quanto perché dobbiamo farlo.

Ecco, perché? 

Il modello scolastico italiano è nato con un obiettivo e una popolazione che non esistono più. Si trattava di traghettare una massa di analfabeti verso competenze di base: leggere, scrivere, far di conto. Lo si è fatto con un modello tayloristico, derivato da quelli ottocenteschi, poco costoso e molto semplice, improntato sulla lezione frontale dove un insegnante spiega e un gruppo di persone ascolta. Questo ha determinato gli spazi delle scuole: una cattedra (magari su un piedistallo) e tanti banchi. Oggi questo non funziona più.

Che cosa si è rotto? 

Siamo nel mezzo di un periodo di crisi e cambiamento. I giovani di oggi sono poco motivati al successo scolastico. Lo considerano avulso dalle competenze loro richieste. È necessario spostare il focus dall’insegnamento all’apprendimento, così da ingaggiare nuovamente la loro partecipazione e renderli motivati e convinti dell’utilità del percorso. Questo è più evidente negli istituti professionali e tecnici che nei licei, dove alcuni vecchi modelli tengono ancora.

A cosa è dovuto questo stravolgimento? 

Siamo passati a una società familiare diversa. Con la ministra Fedeli abbiamo da poco presentato uno studio su adolescenza e scuola in Italia: ciò che emerge è che ogni famiglia ha in media un solo figlio e, a causa dei sempre maggiori impegni di lavoro, i genitori sviluppano nei suoi confronti un importante senso di colpa. Il figlio diventa così “il principe”, “fragile e spavaldo”. E i genitori i suoi sindacalisti: di fronte a un suo insuccesso c’è il rifiuto e la scuola diventa il nemico.

Come porre rimedio a questa situazione? 

È necessario coinvolgere i ragazzi nei processi di costruzione delle conoscenze, togliendoli dal ruolo di ascoltatori passivi. Ma per fare ciò bisogna smontare la scuola “a canne d’organo”, come è oggi, e cambiarne il tempo, immaginando ad esempio un percorso intensivo di alcune materie diviso per quadrimestri. Poi bisogna innovare gli strumenti, mettere al centro la laborialità: oggi il digitale ci permette esperienze incredibili e un conto è studiare la composizione di una cellula, un altro la possibilità di entrarci dentro con la realtà immersiva. Poi bisogna cambiare gli spazi e i metodi di valutazione: l’obiettivo non è prendere un bel voto, ma sbagliare e capire dove sta l’errore. I ragazzi di oggi sono abituati a modificare i propri comportamenti con i videogiochi, dove si impara sbagliando: ecco, questo modello deve essere in parte riprodotto dalla scuola.

A che punto siamo su questo cammino? 

È difficile dirlo perché il cambiamento procede in modo non lineare. La scuola è la più grande azienda del Paese, con oltre un milione di dipendenti. Ma ci sono due aspetti da sottolineare. Primo: l’innovazione deve partire da una visione, altrimenti scade nella mera curiosità o in progetti fini a sé stessi. Secondo, apparentemente antitetico, il cambiamento deve avvenire dal basso, con il contagio delle idee. Dagli insegnanti, dagli allievi. La politica può accelerare o rallentare questi processi, ma non può guidarli. Le faccio due esempi: quando nel 2008 ho inserito le lavagne elettroniche nelle scuole avevamo le manifestazioni con i cartelli “Meno lavagne, più insegnanti”. O ancora quando la Moratti inserì il “portfolio”, fu in gran parte rifiutato. Oggi sta tornando ed è considerato un importante strumento di autoriflessione, perché i tempi sono maturi.

Continua a permanere un approccio ideologico al cambiamento? 

Purtroppo sì. La scuola è ancora terreno di battaglia politica e questo certo non va a favore della qualità dell’insegnamento.