(Discorso alla Svizzera – tratto da Il Foglio) Il 7 ottobre 1999, nell’aula magna dell’Università di Friburgo, in Svizzera, Elie Wiesel tiene un discorso di oltre un’ora sul rapporto tra passato e futuro. Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, è l’ospite di onore di un convegno internazionale organizzato dalla Federazione svizzera delle comunità israelitiche (FSCI) dedicato al tema della Svizzera di fronte al suo passato. Gli organizzatori gli hanno chiesto di parlare, in particolare, della Shoah: quali sono le implicazioni di Auschwitz per il nuovo millennio? Di quel discorso, inedito fino ad oggi, venne fatta una registrazione, custodita per quasi vent’anni dalle mani devote di Raniero Fratini.
IL MONDO SAPEVA. LA SHOAH E IL NUOVO MILLENNIO
A costo di sorprendervi, inizierò questa meditazione ringraziando la Svizzera per avere accolto, durante la guerra, una ragazza ebrea che più tardi sarebbe diventata mia moglie. Ma quanti altri non hanno avuto tale fortuna?
Parleremo del passato, e parleremo del futuro, nell’ottica del tema del convegno odierno. Il passato ha un futuro? Vi è stato un tempo in cui il futuro è stato qualcos’altro che il futuro, così come il passato stesso ha mutato il proprio significato, mentre ciò che prima era futuro si trasformava, inesorabilmente, in passato. Ci troviamo dunque nel mezzo di due oceani, tra un estremo e l’altro, sforzandoci di scegliere a quale aderire, a quale fare voto di fedeltà, come se i due estremi fossero incompatibili l’uno con l’altro. E allora diventa chiaro che sì, la domanda si pone, e va posta: il passato ha un futuro?
Le ombre lunghe del passato
Negli ultimi tempi, il testimone che è in me si sente sottoposto a una dura prova: la sua testimonianza è stata accolta? La tragicità del messaggero di Kafka consiste nella sua impossibilità a trasmettere il messaggio; la tragedia del sopravvissuto è forse dovuta al fatto che lui, o lei, ha creduto di dover portare la sua testimonianza, eppure il mondo è rimasto immutato. Peggio: ovunque, e a tutti i livelli, il suo messaggio è stato banalizzato, commercializzato, corrotto. Siamo onesti, siamo sinceri, diciamolo, perché è la verità: il termine «Shoah», che così debolmente chiamiamo «Olocausto», non è forse stato usurpato da tutti coloro che, a giusto titolo, denunciano una qualunque forma di ingiustizia?
Domani, nell’anno 1 del nuovo millennio, i nostri amici non ebrei tenteranno di ragionare con noi, e ci diranno: «Ascoltate, dobbiamo voltare pagina. Offriteci dunque la possibilità – offritela ai nostri figli – di respirare liberamente. Una volta all’anno piangeremo i vostri morti, pregheremo per un martire. Ma non ogni giorno! Non ricordateci ogni giorno questo
dramma cosmico, questa tragedia planetaria, quest’ingiustizia che coinvolge non solo la creazione, ma forse persino il Creatore!».
Non si può aprire un giornale, accendere la radio o la tv, né assistere a un’assemblea in una università, a una riunione sociale o politica senza che il tema ritorni, e ritorni con forza: se non è Barbie4 è Touvier,5 e se non è il processo è l’oro, e se non è l’oro è il denaro, e se non è il denaro sono le opere d’arte, e se non sono le opere d’arte, sono le banche. Non
trascorre un solo giorno senza che la storia non cerchi di attingere dalla sua profondità la volontà indomabile di affermare: «Non vi permetterò di dimenticarmi». E così ogni cosa riemerge, tanto che non sappiamo più come comportarci, quale atteggiamento adottare di fronte a quest’abbondanza di notizie che sono in relazione con questo terribile evento; e impiego questa parola consapevolmente: terribile, terrificante.
A ciò si aggiunge la posizione centrale che assume, dentro la nostra vita collettiva e individuale, in quanto ebrei e amici degli ebrei, la sorte di Gerusalemme. Israele e Gerusalemme non servono forse un po’ da compensazione per le sofferenze di questi figli e figlie di esiliati? Mi chiedo: la Shoah può forse essere commemorata altrove che a Gerusalemme?
E, allo stesso tempo, a Gerusalemme ci si ricorda di questa terribile esperienza come si dovrebbe? Lo sappiamo: in generale, essere ebrei ha sempre significato oscillare tra l’estasi e il dolore, tra la speranza più elevata e la più oscura paura. Ci attacchiamo al passato; nessun altro popolo vi è legato con altrettanta forza. Chi, tra i popoli, chi, tra le nazioni, chi, tra gli individui, ricorda le sconfitte tanto quanto le vittorie, se non di più? Solitamente, i popoli adorano celebrare le proprie vittorie. Noi, invece, ricordiamo le nostre disfatte, le nostre tragedie. Così, ancora oggi, il nono giorno del mese di Av,7 ricordiamo la distruzione del Tempio; il decimo giorno del mese di Tevèt,8 ricordiamo l’assedio di Gerusalemme.
Ogni giorno, per noi, è un richiamo del passato che ci dice: «Ebbene sì, sono ancora qui, rimarrò qui». Al tempo stesso, ricordando le nostre sconfitte e le nostre lacrime, ricordiamo anche quelle degli altri. Chi ricorderebbe, oggi, il nome di Antioco Epifane se non fosse per noi, gli ebrei, che una volta all’anno, durante la Festa delle Luci [Chanukkà], ricordiamo ciò che egli inflisse al nostro popolo all’epoca in cui regnava sulla Giudea? Chi conoscerebbe, oggi, il nome del generale Tito? Noi invece oggi sappiamo
esattamente quali crimini ha commesso entrando a Gerusalemme, violando la santità del Tempio. Ebbene, la nostra memoria non è esclusiva, bensì inclusiva, e convoca coloro che sono altrove e attorno a noi e che, in ultima istanza, appartengono alla nostra memoria. Ma d’altro canto, senza la facoltà di trasformare il passato in ricordo, che cosa farebbe l’uomo? L’uomo cesserebbe di pregare, di sognare, di lasciarsi stupire dall’amore e
attirare dall’amicizia. Che cosa sarebbe la storia della cultura di una comunità, qualunque essa sia, di una civiltà, qualunque essa sia, se fosse privata di memoria? Platone e Montaigne esistono perché i nostri studenti – ci troviamo dentro un’aula universitaria, e mi rivolgo dunque a dei colleghi, a dei confratelli – se ne ricordano. Shakespeare ci fa agire e Molière sorridere. Se la dimensione etica mi anima in quanto uomo e in quanto ebreo, è perché io percepisco ancora oggi le lacrime di Geremia e i canti di Isaia. Dove sarei, se dietro a Mosè non cercassi con lo sguardo il roveto ardente perché mi apra un varco verso il Signore dell’universo? In altre parole, è il passato, e ciò che scegliamo di farne, che determina e costruisce il futuro. Chiunque cancelli il passato uccide il futuro.
Certo, sono ben consapevole che per il nostro secolo, per la generazione a cui apparteniamo, il passato è spesso pesante da portare: due guerre mondiali, le dittature, le ideologie totalitarie, mostruose, crudeli, mortifere che hanno sostituito il sacro con il profano, l’adorazione con l’umiliazione, la sete di verità con il profumo del potere e della dominazione. Ma cos’è il passato per me?
È il regno maledetto del filo spinato, è la caccia all’uomo, l’oppressione dello straniero, il disprezzo e la negazione dell’altro, la volontà di annientare tutto un popolo ebbro di Dio che si aggrappa, giorno dopo giorno, alla speranza messianica. Il passato, per me, è la paura, l’angoscia, il terrore del bambino disperato che, nel ghetto, cerca un rifugio senza trovarlo. Come vivere con tali ricordi senza impregnarsi della loro malinconia? Come proclamare, oggi, la fede nell’uomo e nel suo Creatore, se l’anima continua a tremare di fronte al mistero della loro eclisse? L’ebreo che è in me, fedele alla sua tradizione e alla memoria del suo popolo, non può che interrogarsi sul senso di un’umanità che, in questo secolo turbolento, ha dato prova della sua grandezza, ma anche della sua bassezza. Mai, come nel nostro secolo, l’essere umano ha raggiunto così tanti traguardi negli ambiti più disparati – nella ricerca medica, nella scienza – ma mai, allo stesso tempo, ha così tanto oltraggiato il suo prossimo. Come possiamo benedire l’uomo senza evocare le sue mancanze? L’uomo cammina sulla luna senza sapere cosa vi stia cercando; andiamo alla conquista dello spazio e dimentichiamo
la terra. Prolunghiamo la vita e isoliamo i vecchi. Celebriamo i diritti umani mentre il razzismo non cessa di diffondersi, l’odio di propagarsi, l’antisemitismo di crescere. La violenza in Africa, in Asia, nella ex Iugoslavia, in Cecenia, i vili attentati terroristici in Terra Santa: tutto ciò minaccia di distruggere le speranze di pace. Non abbiamo dunque
imparato nulla, compreso nulla? Se Auschwitz non ha potuto eliminare il fanatismo, cosa potrà riuscirci? Cosa bisogna fare perché, sulla soglia del ventunesimo secolo, l’uomo ammetta finalmente questa verità implacabile: quando un popolo è minacciato nel suo destino, sono tutti gli uomini a essere minacciati? Kafka, come sempre, lo dichiara magnificamente: «Colpisci un ebreo e uccidi l’uomo».
(…)
Che cosa fare, amici, di questa verità? Ciò che a me è chiaro è che questa verità non deve spingerci all’ingiustizia; non bisogna che essa ci renda inumani. Non bisogna che ci renda estranei nei confronti degli altri, né nei confronti di Dio. Non bisogna che ci spinga alla disperazione. Oh, certo, vi sarebbero molte ragioni! Ve ne ho elencate alcune: gli assassini uccidevano, i bambini morivano e il mondo taceva. Devo dirvi che quando lessi in un
rapporto – e mi capita di rado di cedere all’ira – che Mengele aveva visitato la Svizzera per trascorrervi le vacanze, per far visita alla sua famiglia, mi sono quasi abbandonato all’ira. È persino peggiore di tutte le storie di banche e di soldi rubati! Ma nonostante tutto non bisogna mai nemmeno considerare la possibilità di accusare un’intera nazione, un intero popolo, un’intera collettività, qualunque essa sia. Non credo nel concetto di colpa
collettiva. Non credo che una comunità, qualunque essa sia, che un popolo, qualunque esso sia, debba, possa essere accusato dei crimini che alcuni hanno commesso.
Per concludere, vorrei citare le parole di un amico che non ho conosciuto, che ho potuto soltanto leggere: Albert Camus. Egli afferma, credo verso la fine della Peste, «che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare». E dirò lo stesso a proposito del tema di oggi: ci sono negli uomini più cose da celebrare che da disprezzare.