Non c’è solo una divergenza tra Stati Uniti e Israele per quel che riguarda le pause umanitarie richieste da Washington – e rifiutate da Benjamin Netanyahu – per fare affluire aiuti alla popolazione di Gaza. Esiste una distanza tra i due alleati che è ancora più importante.
«Endgame» cercasi: l’obiettivo strategico di lungo termine che andrà raggiunto dopo le operazioni militari. In altri termini, chi governerà Gaza? È questo il tema più cruciale che l’America affronta nella sua azione diplomatica verso Israele e il mondo arabo. È nota la richiesta che la Casa Bianca rivolge a Benjamin Netanyahu perché l’azione militare israeliana sia contenuta, tenti di limitare le vittime civili, e preveda delle interruzioni dei combattimenti per far giungere cibo, medicinali e benzina alla popolazione della Striscia. Ma non c’è solo questo.
Un dialogo parallelo – con Israele e con il mondo arabo – riguarda il dopo-guerra. Il segretario di Stato Antony Blinken nel suo ennesimo viaggio a Tel Aviv è andato a parlare di questo con il premier israeliano e altri membri del suo governo: decapitare Hamas dopo gli orrori del 7 ottobre è un obiettivo legittimo, però bisogna avere già oggi un piano per il dopo-Hamas. L’idea di affidare Gaza a una forza internazionale gestita dai paesi arabi è seducente ma inconsistente, perché tutti i candidati si tirano indietro.
Il contenimento di Hezbollah funziona. Per ora
L’America per adesso può segnare qualche modesto successo al suo attivo, e diversi insuccessi. Tra le notizie positive: ieri il temuto discorso del leader di Hezbollah in Libano, Hassan Nasrallah, è stato meno bellicoso del previsto. Cioè, la retorica è stata densa di minacce e proclami di guerra, però tra le righe si è percepito che Hezbollah non vuole aprire un vero e proprio fronte aggiuntivo nel conflitto. Il rischio c’era, e rimarrà sempre come una tremenda possibilità: perché tra Hezbollah e Hamas esiste una perversa competizione del terrore, una gara a chi si dimostra più feroce ed efficace nel perseguire la distruzione d’Israele e lo sterminio degli ebrei. Tuttavia al momento Hezbollah si limita a degli attacchi missilistici e di droni «a bassa intensità». Una spiegazione riconduce agli Stati Uniti, i quali hanno avvicinato una squadra navale al largo del Libano proprio in funzione deterrente.
Il messaggio lanciato dal dispositivo militare rafforzato degli Stati Uniti è rivolto a Hezbollah e al loro protettore che è l’Iran: in caso di allargamento del conflitto l’America non lascerà che Israele debba difendersi da solo contro tre nemici su tre fronti diversi. Per adesso la mossa di Washington sembra avere funzionato, ma è bene evitare giudizi perentori in un conflitto che può riservarci altre terribili sorprese. Il metodo dell’Iran finora rimane quello tradizionale: infliggere il massimo danno «per procura» ai propri nemici, usando milizie terroristiche, negando il proprio coinvolgimento diretto e quindi evitando di pagare un prezzo troppo elevato. L’Iran ha già incassato dei successi importanti dal 7 ottobre. Il primo e più noto è l’aver silurato l’avvicinamento in corso tra Arabia saudita e Israele, con tutti gli annessi e connessi tra cui la protezione militare rafforzata dell’America a beneficio dell’Arabia e perfino una cooperazione nucleare. Un altro beneficio è che l’Iran è tornato a presentarsi come una nazione indispensabile, un interlocutore essenziale per le sorti dell’intero Medio Oriente. La diplomazia degli ayatollah sta dialogando con la Turchia e con la Cina, allargando a cerchi concentrici la propria azione in un crescendo di attivismo e protagonismo. Con la Russia la collaborazione militare è totale. L’America ha un disperato bisogno di invertire la tendenza attuale in cui tutti i suoi nemici incassano vantaggi: Iran, Russia, Cina. Il diritto di Israele a difendersi e quindi l’obiettivo di distruggere Hamas ha l’appoggio di Washington, ma è sul dopo che gli americani non possono lasciare carta bianca a Benjamin Netanyahu.
Prima del 7 ottobre Hamas era impopolare, a Gaza
Un profondo conoscitore della Palestina è Khalil Shikaki, lui stesso originario di Gaza dove vivono ancora alcuni dei suoi familiari, a Ramallah (Cisgiordania) dirige il Palestinian Center for Policy and Survey Research. È l’unico studioso ad avere compiuto indagini demoscopiche tra i palestinesi, Gaza inclusa, dal 1993 ad oggi. Trascrivo qui alcune delle sue considerazioni. Il consenso della popolazione di Gaza verso Hamas era molto basso prima del 7 ottobre, i sondaggi realizzati da Shikaki indicavano un appoggio limitato a poco più di un quinto dei residenti della Striscia. Di recente – ma prima della guerra – c’erano state perfino delle manifestazioni di protesta contro Hamas, animate soprattutto da giovani.
Le atrocità criminali commesse dai terroristi di Hamas contro civili israeliani, gli stupri e il massacro di donne e bambini, secondo lui purtroppo hanno sortito un effetto galvanizzante su una parte della popolazione palestinese. Hamas può avere aumentato i suoi consensi, tra coloro che lo vedono come un’organizzazione capace di «tenere testa a Israele». Tutto questo fa precipitare indietro di molti anni la situazione. Shikaki non è del tutto negativo sulla «illusione» di Netanyahu e degli americani (Obama-Biden) di poter trovare un rapporto con Hamas, anche attraverso la mediazione del Qatar. Secondo l’esperto palestinese negli anni scorsi era emersa un’ala pragmatica di Hamas, disponibile ad accettare l’esistenza d’Israele nei fatti anche se non a riconoscerla come un diritto. C’era chi sognava per Hamas uno scenario «alla Sadat», ricordando il presidente egiziano che attaccò Israele nel 1973 (guerra dello Yom Kippure) ma pochi anni dopo usò il suo parziale successo militare per negoziare gli accordi di pace e il riconoscimento di Tel Aviv. Ora è tutto finito, l’orrore del 7 ottobre ha precipitato il Medio Oriente in una fase molto diversa.
Chi non vuole un «protettorato» della Lega araba sulla Striscia
Ammesso che le forze armate israeliane riescano a distruggere l’apparato militare di Hamas, l’America sta chiedendo con insistenza cosa accadrà dopo. Si è parlato di assegnare Gaza a una forza multilaterale – civile e militare – espressa dalla Lega araba. I paesi più citati per un’operazione di questo tipo sono l’Egitto e la Giordania per la loro vicinanza, l’Arabia saudita con gli Emirati e il Qatar per la ricchezza che potrebbero mettere al servizio della ricostruzione, rinascita, stabilizzazione. Qualcuno ha citato il precedente del Kosovo.
Ma le differenze sono enormi a cominciare dalla prima, che è dirimente: gli Stati arabi non ci stanno. È facile ironizzare sull’ambiguità dei leader arabi, a parole pieni di solidarietà per i palestinesi, nei fatti molto diffidenti verso quel popolo. Ma molti di questi paesi sono stati scottati dalle loro esperienze in passato, quando si sono cimentati con la questione palestinese. Il caso più antico e più drammatico fu la Giordania, che avendo metà della popolazione di origine palestinese rischiò di subire il rovesciamento del proprio regime. Altri come l’Arabia hanno versato fiumi di denaro che i palestinesi hanno dissipato in armi o in corruzione. L’Egitto teme di mettersi in casa degli infiltrati di Hamas che ricostruirebbero la presenza dei Fratelli musulmani. Ognuno ha delle ragioni antiche per volere solidarizzare con i palestinesi solo da lontano, tenendoli a debita distanza.
Si aggiungono delle obiezioni nuove, legate alla guerra attuale. Mandare una forza multinazionale araba a governare Gaza dopo che Israele ha effettuato massicci bombardamenti con tante vittime collaterali anche tra i civili, può sembrare agli occhi delle opinioni pubbliche arabe un abietto collaborazionismo con un paese che viene accusato di «genocidio dei palestinesi». Per quanto nessuno dei paesi arabi o nordafricani che ho menzionato sopra sia una democrazia, tuttavia anche i monarchi o gli autocrati che li governano devono tener conto degli umori della piazza. E la piazza araba è pro-Hamas almeno quanto i campus universitari occidentali e certi cortei «pacifisti» in America e in Europa.
Un sintomo di quest’atmosfera di odio lo si è avuto anche con il progetto di legge presentato in Tunisia, che criminalizza qualsiasi relazione con Israele. È un gesto privo di conseguenze concrete, appare soprattutto come una concessione alla piazza, oltre che un’implicita condanna politica del vicino Marocco (firmatario degli accordi di Abramo), ma dà un’idea del clima attuale in tutta l’area. Oltre al fatto che una coalizione araba inviata a Gaza dopo i bombardamenti israeliani sarebbe «impresentabile» alle opinioni pubbliche del mondo islamico, c’è poi il problema della sua legittimità locale. Immaginarsi se una parte dei palestinesi della Striscia reagiscono con ostilità. Immaginarsi se appare qualche cecchino che spara ai soldati egiziani o sauditi.
Fra tutti i vicini, l’Egitto è quello più ostile ai palestinesi di Gaza perché teme infiltrazioni jihadiste sul proprio suolo. Il generale al-Sisi si rifiuta di accogliere profughi palestinesi nel Sinai; è arrivato al punto di dichiarare che se Israele dovesse spostare una parte della popolazione della Striscia in Egitto, questo sarebbe «un atto di guerra» e farebbe decadere gli accordi di pace tra il Cairo e Tel Aviv. Anche in questo caso ci sono argomenti ufficiali e motivazioni inconfessabili. Il generale al-Sisi dice di non voler accogliere i palestinesi per non togliere a Israele la responsabilità di risolvere la situazione di Gaza. Comprensibile. Quel che non dice è che lui considera i palestinesi dei potenziali nemici pronti ad attentare al suo regime che è nato schiacciando i Fratelli musulmani.
Il rifiuto dei paesi arabi di assumersi responsabilità di governo, ordine pubblico e ricostruzione di Gaza ha tutte le giustificazioni reali o immaginarie, ma mette l’America in una grande solitudine. La grande coalizione di regimi sunniti moderati su cui gli Stati Uniti hanno investito per stabilizzare e pacificare il Medio Oriente si sta squagliando, almeno in questa fase del conflitto. Se è nelle crisi che si misura la leadership, in questo momento anche il giovane principe saudita Mohammed bin Salman non sta dando una gran prova di carattere, visione, autorevolezza e spirito d’iniziativa. L’Arabia si stava ritagliando un ruolo da potenza regionale, ma è bastata la congiura Iran-Hamas e ora questo ruolo sembra rimpicciolito.
Quali opzioni restano per Biden e Blinken? L’occupazione di Gaza a tempo indefinito da parte dell’esercito israeliano è un’opzione reale, concreta, ma gravida di pericoli. Anche senza Hamas e in uno scenario post-Hamas, quell’occupazione rischia di fomentare nuovo odio, di preparare una nuova generazione di terroristi, di isolare Israele dai suoi recenti amici tra i leader arabi moderati. Gli americani sono contrari e lo stanno dicendo in tutti i modi possibili a Netanyahu.
La soluzione preferita secondo Washington è che la Striscia sia affidata all’Autorità palestinese, quella che governa (più o meno) la Cisgiordania con capitale a Ramallah. Però non può essere questa Autorità palestinese, presieduta dall’87enne Mahmoud Abbas la cui credibilità e legittimità è minima. Corrotto, incapace, e venduto agli israeliani, sono alcune delle accuse che più spesso gli vengono rivolte dai suoi cittadini. Dunque occorre che l’Autorità palestinese esprima un nuovo leader. E occorre che la sua credibilità e legittimità si fondi su una svolta politica d’Israele in favore di una soluzione del conflitto che preveda «due Stati». Garanzie di sicurezza per lo Stato d’Israele, e garanzie di sopravvivenza per un vero Stato palestinese autonomo (ancorché forse disarmato). Il problema è che le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre hanno ulteriormente ridotto il consenso tra gli israeliani in favore di uno Stato palestinese. Anche se sui nostri media diamo molto spazio alla sinistra israeliana e ai pacifisti di quel paese, gli ultimi sondaggi dicono che solo un terzo degli israeliani oggi sono in favore di due Stati.
Questo la dice lunga sulla solitudine dell’America e sulla Mission Impossible di Biden-Blinken.