Come spiega MAX FISHER ne “La macchina del caos”, le piattaforme che gestiscono i social hanno amplificato i nostri impulsi innati a fare gruppo tra “noi” per difenderci da “loro”, facendo leva su appartenenze identitarie vere, pompate ad arte o addirittura inventate dal nulla. La forza più potente dei social media è l’identità. È questo lo stimolo che funziona meglio di tutti su queste piattaforme, che sono quindi progettate per attivarlo e dargli maggiore intensità. Esprimere e perfezionare l’identità, vedere e definire il mondo attraverso le sue lenti: questo effetto ha rivoluzionato il funzionamento dei social, perché i loro supervisori e i sistemi automatizzati si sono pian piano orientati sull’identità, un elemento che era molto utile ai loro scopi. Per comprendere il potere dell’identità iniziamo a chiederci: con quali parole posso descrivere meglio la mia? Potrebbero venirci in mente la nazionalità, l’etnia o la religione. Forse la città in cui viviamo, il lavoro che facciamo, o il nostro genere. Il nostro senso dell’io deriva in gran parte dalla nostra appartenenza a uno o a più gruppi. Ma questo impulso – le sue origini e i suoi effetti sulla nostra mente e sulle nostre azioni – «resta un mistero imperscrutabile per gli psicologi sociali», come scrisse Henri Tajfel nel 1979, quando decise di provare a risolverlo.
Molti primati vivono in piccoli branchi. Gli esseri umani, al contrario, sono comparsi in collettivi numerosi, in cui l’appartenenza familiare non era sufficiente a legare i membri che perlopiù non erano imparentati fra loro. Il dilemma era che il gruppo non era capace di sopravvivere senza che ciascun membro contribuisse al benessere dell’insieme, e a sua volta nessun individuo poteva sopravvivere senza l’aiuto del gruppo.
L’identità sociale, come venne dimostrato da Tajfel, è il modo in cui leghiamo con il gruppo e in cui il gruppo lega con noi. È per questo che ci sentiamo spinti ad appendere una bandiera davanti a casa, a indossare una felpa con il nome dell’università che abbiamo frequentato o ad appiccicare un qualche adesivo sulla macchina. Sono manifestazioni che dicono al gruppo che teniamo alla nostra affiliazione, che la consideriamo un’estensione di noi stessi e che quindi siamo individui affidabili, pronti a fare il bene del gruppo. L’impulso a coltivare un’identità condivisa è talmente potente che ce ne costruiamo una anche dal nulla. In un esperimento alcuni ricercatori hanno assegnato ai soggetti una tra due etichette mediante il lancio di una monetina, dopo di che hanno fatto fare loro un gioco. Il risultato? Ognuno si mostrava più generoso con chi aveva la sua stessa etichetta, anche se sapeva che si trattava di definizioni prive di significato.
“Oggi sui social esistono solo le modalità «genio!» o «devi morire»: non esiste la critica culturale o anche solo il dissenso argomentato, esistono gli hater, qualunque cosa s’intenda con questo automatismo lessicale ridicolo”.
[…] Si tratta di istinti profondamente sociali e pertanto le piattaforme di social media, trasformando ogni click e ogni swipe in un atto sociale, li fanno riaffiorare. Il risultato crea una realtà fittizia in cui il gruppo cui l’utente appartiene è sempre virtuoso ma assediato, i gruppi estranei sono sempre una minaccia terrificante e quasi tutto ciò che succede è una questione di “noi” contro di “loro”. All’inizio, ovviamente, la tendenza dei social di indulgere sull’identità non era dannosa. Ma è sempre stata ben nota.
[…] «L’identità è la fionda», come ha scritto Ezra Klein, fondatore del sito di notizie Vox, in un libro sulla polarizzazione. «All’inizio in pochi capivano che il modo di vincere la guerra dell’attenzione era imbrigliare il potere della comunità per creare identità. Ma i vincitori sono emersi in fretta, spesso usando tecniche di cui neanche loro capivano fino in fondo i meccanismi». E tali vincitori erano dei provocatori superfaziosi, delle fabbriche di click a scopo di lucro, degli sfacciati truffatori. Liberi da vincoli che li costringessero all’imparzialità, alla precisione o a perseguire il bene comune, costoro trovavano pubblici enormi cavalcando, o provocando, i conflitti d’identità. Le conseguenze, lì per lì, non sembravano estendersi al di fuori di Internet. Ma oggi…
Alla mia veneranda età credo di aver capito tanti anni fa che non ero disposto a partecipare a questa lotta tra Noi e Loro. Non mi sono mai sentito uno di parte, piuttosto uno che ama vivere in disparte. Scegliere il Noi cui legarsi sembra facile, almeno a me sembrava razionale essere antifascista e stare con Calamandrei e Guido Calogero. Ma oggi, a quale Noi dovrei appartenere? E tra i Loro vedo tanti insopportabili pur essendo laici, antifascisti, puri e duri. Insomma, si è tutto mischiato e devo dire la verità, non la ritengo una cosa dannosa. La lotta tra Noi e Loro, che poi sarebbe la lotta tra Bene e Male o tra Giusto e Ingiusto, mischia politica e morale perchè i Noi si considerano sempre i Buoni e Loro sono sempre i cattivi. Ho pochi amici che continuano, da più di 50 anni, a ragionare così, non si sono ancora stancati forse perchè ognuno, come diceva il maestro Manzi, fa quel che può.