A ogni crisi identitaria della sinistra riecco la nostalgia per il Pci

Con la disruption del Pd di Schlein si torna quindi ai classici, quelli che “non hanno mai smesso di dire quel che hanno da dire”, come diceva Calvino. Riecco i sindacati “cinghia di trasmissione” e la tentazione dell’edilizia popolare per il caro-affitti. Riecco la chiusura alle riforme per salvaguardare la Costituzione-più-bella-del-mondo not open to Bicamerale. E riecco l’Unità in edicola e le bandiere rosse che sventolano al cinema. Tante, tantissime, come ai tempi di “Novecento” di Bertolucci.

La scelta è ampia, per un comunismo à la carte: narcisistico e immaginifico à la Moretti, oppure malinconico e delicato à la Veltroni, che rifà “Goodbye Lenin!” con Berlinguer, o instagrammabile e wesandersoniano, come nei “Pionieri”, opera prima di Luca Scivoletto, un bildungsroman all’ombra del Pci in un paesino siciliano alla fine degli anni Ottanta. A poche settimane una dall’altra, col pubblico che fatica a ricordare i titoli dei troppi film italiani in sala, tre variazioni sullo stesso tema, tre elegie sull’ossessione identitaria della sinistra, i rimpianti, l’inestinguibile “diversità” o il “desiderio di essere come tutti”.

Si riavvolge il nastro addirittura alla crisi del ‘56, l’Ungheria, la fine dell’utopia, ma poi c’è di tutto, il riflusso, la stagnazione, lo smarrimento di un presente algoritmico e indecifrabile. Come sempre nei film sul Pci c’è il feticcio della “sezione”. Meglio se romana e borgatara. Segno e simbolo di una politica vera, un’appartenenza autentica, i corpi, la gente, la casa comune, prima della smaterializzazione virtuale che ha spazzato via tutto. Al protagonista di “Quando”, il film di Veltroni, cade in testa l’asta di una bandiera a un comizio a San Giovanni, va in coma (ma che asta era?), e si risveglia trent’anni dopo, nell’Italia di Instagram. Quello di Moretti se la prende con Togliatti, immagina uno sliding door, una “nuova via italiana al socialismo”, più gioiosa e meno sovietica. I figli di militanti comunisti del film di Scivoletto scappano in un bosco e lì, subito dopo il crollo del Muro, rifondano i vecchi “pionieri”, l’associazione di scout comunisti in cui inquadrare i giovani rivoluzionari di domani, che ebbe tra i suoi mentori Gianni Rodari.

Anche Neri Marcorè, che nel film di Veltroni si chiama Giovanni Piovasco, si aggira in un mondo che non capisce. Tutto è cambiato dal giorno in cui è andato in coma. Non c’è più Berlinguer, non c’è più l’Urss, né la cattivissima Dc, e al posto del guanciale nella carbonara mettono la bottarga. Giovanni non si raccapezza. Sembra un Forrest Gump del Pci, custode di buoni sentimenti e d’una diversità morale che però non si porta più. Le metafore rotolano giù come macigni: dopo la falce e martello fatale ecco il risveglio in un ospedale cattolico e l’amorevole abbraccio d’una suora (ah il compromesso storico! Ah il cattocomunismo!), e poi il Liceo Mamiani, la Frattocchie della borghesia riflessiva, e Andrea Salerno che fa il barista e Pierluigi Battista il militante, in una sede di partito dove oggi per lo più si balla. Veltroni è un’azienda a partecipazione statale, film, editoriali, documentari, programmi televisivi, ma con un unico claim che ritorna sempre come un basso ostinato: i sentimenti erano giusti, l’ideologia sbagliata. Moriremo veltroniani. Ma questa infinita malinconia per il Pci e le sue madeleine sembra anche un problema molto romano, Ztl e Monteverde Vecchio, che si rimpalla tra Veltroni e Moretti, venerati santoni della sinistra-boomer, diversi ma uguali e “passive-aggressive” verso il presente (Moretti come un Veltroni nevrotico e scorbutico, Veltroni un Moretti da Rai 1). Anche il gioco delle correnti, il “chi sta con chi”, il film che va o non va in una “certa direzione”, non interessa più. Si sta tutti insieme a consolarsi coi ricordi e l’album di famiglia. Abbiamo perso ma abbiamo vinto.

All’epoca delle primarie, quando ancora era scontata la vittoria di Stefano Bonaccini, Lilli Gruber chiese a Elly Schlein se per caso fosse comunista. Lei balbettò, tentennò, ci girò intorno. Spiegò che siccome era nata nel 1985 anche volendo non avrebbe potuto iscriversi al Pci, insomma non capiva bene la domanda. Come se a bruciapelo ci chiedessero se siamo carbonari o mazziniani. Era una risposta molto “generazzionale”, come usa tra i millennial (Fellini? Non l’ho mai visto, sono nato nel 2000, eccetera). Eletta segretaria, ecco allora un’azione ampia e concertata per metterla al corrente dei gloriosi trascorsi. L’Unità di Romeo e Sansonetti esce martedì, ma intanto c’è il numero zero.

Qui all’Esquilino, a Roma, quartiere bohémien e sgarrupato, abitato da scrittori, giornalisti, filmmaker e baby-pensionati oramai settantenni, la si espone nelle edicole come un vessillo. Sono due fogliettoni agguerriti, gigantografia col sorriso buono e autentico di Berlinguer in prima, e titolone tipo Lotta Comunista, “Stiamo tornando!”. Salta subito all’occhio la grafica dilatata e aggressiva, quel “fondata da Antonio Gramsci” che si prende la scena, come “da un’idea di Stefano Accorsi” in “1992”. Questa nuova Unità ha caratteri molto grandi, non si capisce se per rivendicazione identitaria o a tutela dei lettori anziani e presbiti, unici acquirenti di quotidiani rimasti in circolazione. Dice che sarà il giornale “della società vera, debole, silenziosa, dolente” e “dei migranti, dei prigionieri, dei lavoratori, delle minoranze, delle donne”. Che si opporrà “allo sfruttamento, alla guerra, alla sopraffazione”, ma nel frattempo anche alla riassunzione della vecchia redazione del giornale: la nuova Unità la fanno giornalisti e grafici del Riformista, ma solo perché “i colleghi della ex-Unità erano renziani”, spiega Sansonetti. Giornale dei lavoratori sì, ma dei renziani no. Non una parola su Schlein, ma una fatale associazione Meloni-Tambroni, “un governo che fu rovesciato da un moto poderoso, del quale furono protagonisti dei ragazzini di vent’anni che indossavano le magliette a strisce”, per una nuova armocromia popolare. Ecco il vintage, il passato che non passa, la nostalgia per i grandi tornanti della storia di una sinistra di nuovo ubriaca di massimalismo (con l’Unità che può davvero in questo senso dirsi comunista: più fallisce, più rinasce).

Moretti siamo andati a vederlo in un cinema della Ztl, non nel suo, per evitare l’effetto Venditti al Circo Massimo, ma comunque in ambiente ben disposto al fraseggio tipico (il bla-bla morettiano è sempre ubriacante, però più passa il tempo, più le parole rotolano lente, si fatica a separare il registro ironico da uno spot Amplifon). 

E’ un film che si spalanca in tutte le direzioni e possibilità, ma più che i richiami a “Otto e mezzo” di Fellini, siamo dalle parti de “La vita è bella”. Moretti gioca col comunismo come Benigni giocava con Auschwitz, e naturalmente se lo può permettere: il Pci è la sua nevrosi, come “Casablanca” o i film di Bergman per Woody Allen. Una cosa comunque non più importante delle scarpe o dei gelati. Come in Benigni, se le cose si mettono male si può sempre buttarla in caciara e si canta, si balla, si raccontano le favole, perché buoni come siamo c’entravamo poco sia con la Shoah, che col comunismo russo e cattivo. Moretti strappa il poster di Stalin e immagina un finale con sfilata di bandiere rosse e libere ai Fori Imperiali, perché il sogno resta sempre quello, “er comunismo co’ la libbertà”, anche se le due cose fanno a cazzotti, ma chi se ne frega. Un finale che è soprattutto un carosello, un adieu, una passerella con le facce morettiane che ci salutano, come in un Ambra Jovinelli d’antan. 

Perché tutto questo rimestare senile o giovanile sul Pci? Perché proprio ora e guarda caso insieme al ritorno a sinistra-sinistra del Pd? La storia è sempre quella. Ogni volta che la sinistra imbocca la complicata via del riformismo, tra tentennamenti, scissioni, paure, arriva qualcosa che la rimanda indietro di venti-trent’anni, e si fatica ancora a raccontare il comunismo come una catastrofe nelle premesse, non solo negli esiti. Orfana del Pci, ritrovò forza e verve nell’antiberlusconismo. Messo in soffitta l’antiberlusconismo per sopraggiunti limiti d’età del nemico, archiviata poi la subdola appendice renziana, ecco di nuovo l’horror vacui, le antiche domande, chi siamo, che facciamo, dove andiamo. Schlein magari piace così-così, ma innesca il ritorno a casa, il revival nostalgico, il medley coi cavalli di battaglia della sinistra intransigente e assembleare e non più equivoca. Anche stavolta il riformismo può attendere.

La storia si può fare anche con i “se”, dice Moretti, e allora ci vorrebbe anche un film che davvero dia una chance al comunismo italiano, come in una puntata di “Black Mirror”: le elezioni del ‘48 le vince il Pci, De Gasperi va in esilio in Usa, entriamo nella sfera d’influenza sovietica, Umberto Saba non erra da una piazza all’altra dicendo “Porca Italia”, ma compone un canzoniere per la nuova “Repubblica Socialista d’Italia”. Ci lanciamo in un comunismo mediterraneo e fancazzista, più che scientifico e materialista, tra Cuba e l’Albania, però col Concordato. Poi, trent’anni di miseria, stenti, privazioni, aziende di stato che tracollano, Sanremo in bianco e nero senza ospiti vinto sempre da Claudio Villa vicino al Partito, e film americani visti di nascosto nelle catacombe. E poi il crollo del Muro, lo sgretolamento dell’apparato, un po’ di guerra civile come in Jugoslavia, e poi rinascita, euforia, il ritorno del turismo, come nella Hollywood sul Tevere, e un boom economico coi millennial e start-up che tutto il mondo ci invidia. Ci vorrebbe una saga famigliare, come nei grandi feuilleton. Potrebbe essere una serie-evento per la nuova Rai tolkeniana, ma anche un concept perfetto per Netflix, chissà.

Andrea Minuz