Crapis e i sedotti del partito televisivo

L’articolo di Giandomenico Crapis su quel giornalaccio (imho) che è il Fatto (dove non si ha vergogna di irridere finanche Francesca Mannocchi) si occupa della politica pop e intende dare qualche consiglio alla Schlein, rinvenuta a suonare il piano da Cattelan “nel tentativo di legittimarsi anche lei nell’universo della pop politica”.

Cominciamo dai consigli, che come si sa evidenziano sempre una vicinanza tra chi li dà e chi li riceve. Scrive Crapis alla Schlein:

Oddio, non c’è niente di male a farlo, con strategie pensate Ma lo faccia con giudizio, senza esagerare come fece qualcuno prima di lei. E soprattutto non pensi, come hanno fatto prima di lei, che la pop politica possa essere una scorciatoia per riprendersi consenso e voti in assenza di un’azione profonda e radicale sul territorio.

Quel “qualcuno prima di lei” per Giandomenico è Renzi, al quale dedicò un intero libro ( Matteo Renzi dal pop al flop, Mimesis, 2019,pag 100). Ora, dopo 4 anni, lo stesso Renzi è un personaggio inserito nella storia seguente:

Tutto cominciò con quel maledetto risotto di D’Alema a casa di Vespa (sempre lui!). Una trovata del fido (ex) Rondolino realizzata con la complicità della moglie, la regista tv  Simona Ercolani, cui seguiva tempo dopo la comparsa da premier in prima serata da Morandi a cantare C’era un ragazzo. Esordiva a sinistra con quello sciapo risotto (a detta di chi lo assaggiò) il “direttismo”, la voglia di fare politica solo con il leader, nella convinzione che la prima si potesse ormai ridurre a un leader più una buona comunicazione, grazie all’accorto uso dei media e senza l’ingombro di un partito che doveva diventare il più leggero possibile, invisibile, fino a scomparire.

La storia è questa: da D’Alema, a Fassino (che piange con la tata a C’è posta per te), a Rutelli, allo stesso Bersani (dove più, dove meno), fino a Renzi che della politica pop fu l’insuperato maestro, anche se poi il pop gli fece flop.

In questa storia raccontata da Crapis c’è un evidente disturbo che si chiama derealizzazione – l’insuperato maestro per lui è ancora Renzi (che non ha mai smacchiato nessun giaguaro e mai trovato una mucca nel salotto) quando invece è Bersani, classe 1951 – al quale aggiunge un inciso (dove più, dove meno) incredibile e significante.  Il piacentino ormai da anni si è incistato nella tv, anzi, vive in tv contando sull’amicizia di Floris che su La 7 ogni 15 giorni gli offre una tribuna di circa 90 minuti intervistato da due o più giornalisti come se fosse Olof Palme.

Altro che “dove più, dove meno”. Bersani, che elettoralmente conta 1, politicamente conta zero, ed è solo amico di Conte, è il tipico personaggio pop perchè, al pari di Malgioglio e Morgan, deve tutto alla tv che gli fornisce una carta d’identità. Quando Bersani viene visto per strada, come Malgioglio o Morgan, la gente dice “è quello della tv”. Bersani non viene votato, Malgioglio o Morgan non vendono dischi, ma i tre sono popolari. Bersani non è più un politico, Malgioglio e Morgan non sono più cantanti, sono personaggi televisivi.

D’Alema in tv non va e si fa gli affari suoi, come Renzi, che mantiene ancora un suo partito personale ma giura che intende farlo confluire nel “terzo polo”. Rutelli è comparso su Rai 3 da Mannoni ieri sera e non lo vedevamo da una vita, Fassino è un altro che in tv va pochissimo e nessuno ricorda più che è stato segretario dei Ds e sindaco di Torino.

Giandomenico Crapis come storico della tv in tutti i suoi libri ha spiegato bene il rapporto tra la sinistra e la tv. Cosí

All’inizio la sinistra aveva considerata la tv un mezzo pericoloso per le masse, di persuasione occulta e distrazione molesta. Un atteggiamento sbagliato perché quella tv, con tutti i limiti, emancipava il Paese e le classi povere. E il divertimento aveva una sua ragione. Poi arrivarono gli anni 90 e con un ribaltamento si scoprì la tv, le sue virtù vere o presunte, ci s’innamorò dei media, commettendo l’errore di abbandonare l’organizzazione, il radicamento, le sezioni.

Sedotta dal “partito televisivo” di Berlusconi, la sinistra pensò che bastasse un bravo leader, supportato da un gruppo di esperti della comunicazione, che strizzava l’occhio dal video ai cittadini. Il “direttismo” era certo un fenomeno globale, ma da noi rappresentava l’ultima delle strategie fallimentari di una sinistra che sulla questione tv aveva puntato in precedenza su una sciagurata, altrettanto fallimentare, negoziazione con Berlusconi.

È per questo che Schlein fa bene a suonare il piano da Cattelan, a mostrarsi, diversamente da come fece Prodi che quand’era leader evitava la tv e i talk come fossero il diavolo, perché non gli piaceva il contraddittorio (Sircana dixit). Ma lo faccia, la Schlein, avendo sempre presente che la politica, quella dai consensi non effimeri, è altro dall’apparire, dall’arruolarsi nella compagnia di giro dei politici che recitano la parte di quello alla mano, simpatico e disponibile. Magari solo in televisione.

La domanda allora sulla quale conviene meditare ancora, per me è la seguente: il  direttismo, che Crapis definisce “la voglia di fare politica solo con  i leader”, è davvero “l’ultima delle strategie fallimentari della sinistra” ?

Per rispondere, innanzitutto occorre spiegare che la voglia di fare politica solo con il leader non c’entra nulla con il direttismo. Il direttismo infatti è la “teorizzazione dell’esercizio della democrazia esercitata direttamente dal popolo”. È una locuzione inventata dal grande professore Giovanni Sartori e spiega il populismo, non il presenzialismo televisivo. Vi ricordano niente Casaleggio, Grillo e l’avvocato del popolo ? Ecco i “direttisti graduidamende”.

“Dicevo che l’unico punto fermo che ancora ci resta è la Costituzione e un sistema costituzionale. Che oggi è insidiato da un infantile populismo costituzionale e da un «direttismo» sconfitto da 2500 anni di esperienza. Sarebbe l’ultima sciagura”. (Giovanni Sartori, Corriere della sera, 9 settembre 2010, p. 1, Prima pagina) 

Tutta la storia dell’otto-novecento si è sviluppata sulla continua oscillazione tra  uomo forte e popolo. Spazzate via dal vento della storia le grandi ideologie, il partito personale con i suoi slogan accattivanti collega ora l’uomo forte con il suo popolo attraverso l’uso congiunto di media e social che altro non è se non la trasformazione tecnologica della vecchia propaganda dei raduni di massa con la folla adorante il duce.

In questo scenario il direttismo spiega il populismo mentre il presenzialismo televisivo o social è solo un mezzo, non un fine. Un mezzo come una volta lo erano i comizi, i volantinaggi, il caseggiato. I mezzi cambiano ma il fine resta sempre lo stesso.

Il fine è quello di ottenere consensi, di ottenere tanti voti. Ecco perchè nella sinistra italiana il problema minore è Renzi, il populista narciso che nelle urne prima ha trovato successi elettorali con il pd e poi perse un referendum.

Quello che resterà sempre anche in futuro la vera occasione mancata della sinistra italiana di riformare in concreto il sistema (e invece siamo ancora qui dopo 7 anni a piangere chè la politica sanitaria è ancora regionale e non nazionale).

Il problema maggiore della sinistra sono i Bersani, quelli che appaiono e non prendono voti, sono i Bertinotti, quelli che appaiono, fanno cadere la coalizione di Prodi e non li vota più nessuno. “Bersani è l’uomo vissuto sempre in secondo piano, tra vittorie misere e sconfitte roboanti. L’unico che può vantarsi di aver battuto Renzi” e di essere stato sbeffeggiato in streaming nientepopodimeno che da Vito Crimi e dalla Taverna.

A proposito di media e tv  andate su youtube (Pierluigi Bersani in streaming con i burocrati del Movimento 5Stelle) e riguardate oggi quel 27 marzo 2013, la pagina più agghiacciante della sinistra italiana. In questo modo la prossima volta che vedrete Bersani in tv capirete come sia stato vittima della sindrome di Stoccolma. Altrimenti non si spiegherebbe come in 10 anni i populisti siano diventati alleati della Ditta e del partito di Bibbiano.

Su questa domanda, su questo punto, per quel che mi riguarda, il contributo intellettuale migliore lo ha dato  anni fa Ernesto Galli della Loggia, e lo ripropongo per spiegare bene la situazione:
“Non è vero come si è letto sul Fatto quotidiano che la gente ormai vota come twitta. È che ormai in questo Paese da tempo non esistono più culture politiche, idee, programmi. Che da tempo anche le vecchie identità e le vecchie paure, i vincoli di schieramento, le preclusioni ideologiche, i «non possumus» più o meno storici, sono tutti variamente saltati: sono cose che non hanno più corso o quasi. Di conseguenza le elezioni non sono più una competizione fra orientamenti radicati, fra opzioni politiche in qualche modo collaudate. Tendono piuttosto ad assomigliare per un verso a una decimazione e per un altro a una lotteria. Sono la ricerca sempre più nervosa, sempre più incalzante, di una soluzione che però continua a mancare: trasformandosi alla fine nella pura ricerca di un demiurgo. Esito paradossale di un sistema politico che, partito da una Costituzione fondata per intero sulle entità collettive, sui partiti, nel più assoluto rifiuto di qualunque ruolo personale (perfino come si sa di quello del Presidente del Consiglio, che da noi è un semplice «primus inter pares») si ritrova già da tempo a invocare un salvatore della patria. “.

Sul rottamatore Galli della Loggia è stato molto convincente:
“Il Renzi del 40 per cento della primavera del 2014, incapsulato nella sua autoreferenzialità, accecato dalla sua vanesia spigliatezza – ma ancor di più dalla sua scarsa preparazione culturale, destinata inevitabilmente a trasformarsi in miopia politica – con il referendum costituzionale andò a sbattere contro il muro d’acciaio dell’eterno potere italiano. Contro l’immobilismo dell’establishment travestito da difesa dei sacri principi”. 

Circa la politica pop, consiglio su questo blog Andrea Minuz sul Foglio del 3 luglio 2023 (Dove c’è Elly, c’è pop. Affinità-divergenze: da Renzi a Schlein, sotto il segno di Maria De Filippi)