Covid: quello che i politici sapevano e che oggi negano (Gabanelli e Ravizza)

(Data Room -Corsera- 21/3/2023) Nella decisione di archiviare le accuse di ritardo nelle misure per arginare il Covid contro l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il Tribunale dei ministri scrive: «Non è neppure astrattamente ipotizzabile che il Governo, in un determinato giorno e sulla base di determinate informazioni, fosse tenuto ad assumere determinate misure restrittive, trattandosi di una valutazione che al più può essere fatta a posteriori (…)». Questo passaggio della sentenza, che risale al maggio 2021 ma che è diventata pubblica in concomitanza della recente chiusura delle indagini per epidemia colposa della procura di Bergamo, è destinata ad alimentare un’obiezione che, come sottolinea Paolo Giordano sul Corriere della Sera del 13 marzo, viene ripetuta ovunque: «Non ha alcun senso cercare delle responsabilità per un momento in cui non si sapeva nulla, in cui la situazione era assolutamente nuova e comunque nessuno aveva capito».

Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio basta leggere i documenti relativi a quei drammatici giorni e in possesso di chi deve decidere, oltre alle e-mail che ricostruiscono le ore a ridosso della diagnosi a Codogno del Paziente 1.

Quel 20 febbraio cosa si sa?

Rispondere a questa domanda è un modo per circoscrivere un punto fermo sull’evento che più di ogni altro dalla Seconda guerra mondiale ha segnato la nostra collettività. Abbiamo già svelato i contenuti del Piano segreto che il ministro Speranza voleva tenere riservato, chiamato tecnicamente «Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19»: sono indicati degli scenari che definiscono, in base alla velocità di diffusione del virus, le conseguenze in termini di contagi, malati e occupazione dei posti letto in ospedale. Adesso facciamo un passo in più: esaminiamo quali sono gli strumenti indicati per contenere il contagio e cerchiamo di capire se, già quel 20 febbraio c’erano elementi per valutare la loro efficacia.

Il focolaio del distretto di Jiangxi
Il 18 febbraio 2020 c’è la prima versione del Piano. Al suo interno la fotografia di quel che succede in Cina tra il 5 gennaio e il 7 febbraio 2020 nel distretto di Jiangxi. La scatta il matematico-epidemiologo Stefano Merler della Fbk, che sta studiando i dati cinesi da Natale. Vediamola. Il 5 gennaio c’è il primo caso di Covid di una persona di ritorno da Wuhan, l’epicentro della pandemia; l’8 un altro. La velocità di diffusione del virus, che si misura in quante persone un infetto potenzialmente contagia (Rt), supera la soglia di allarme di «1» l’11 gennaio. Al 12 gennaio i casi accertati di cittadini contagiati ma mai stati a Wuhan e, dunque, che si sono infettati nello Jiangxi sono 6 e 8 in totale. Il 19 gennaio l’Rt è tra «2 e 3» e i casi si moltiplicano: il 20 gennaio complessivamente sono 18, il 23 gennaio 37. Il 25 gennaio scattano le chiusure. Il 26 gennaio l’ultimo dato in crescita: 44 casi. Poi la curva si inverte. Da quando l’Rt va sopra 1 a quando torna sotto l’1 in seguito al lockdown passano 18 giorni. Teniamo a mente questo numero che poi capiremo perché è importante. L’esempio, viene sottolineato nel Piano, serve per «contestualizzare il possibile scenario epidemiologico di tipo 1» ossia l’arrivo del virus in Italia con la presenza di un focolaio locale.

Le misure straordinarie indicate per l’Italia
Il 20 febbraio, durante il Cts alla presenza del ministro Speranza, viene illustrato il Piano dove c’è scritto: «Potrebbe essere necessario prendere in considerazione misure di intervento straordinarie (…), come la chiusura delle scuole (reattiva, su base geografica) (…); la quarantena applicata ai nuclei familiari dei casi notificati; la quarantena di aree geografiche in cui la trasmissione di COVID-19 sia fuori controllo; misure di restrizione sulla mobilità». È l’indicazione da seguire sulla base del modello cinese. Ed è quello che viene fatto per Codogno, come dimostrano le chat del 21 febbraio raccolte dalla procura di Bergamo.

Alle 7.09 Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità, chatta con un gruppo di funzionari: «Oggi sarà una giornata impegnativa. C’è un focolaio in Lombardia. Ma fortunatamente c’è un piano di azione». Alle 7.39 l’allora direttore generale della Sanità della Lombardia Luigi Cajazzo scrive ad Alberto Zoli, membro del Cts nonché alla guida dell’Emergenza-Urgenza lombarda: «Positivi 42 enne con polmonite e moglie del primo malato, donna gravida alla 32 esima settimana». Alle 7.43 la risposta di Zoli: «Ok. Quindi c’è focolaio locale. Si dovrebbe dichiarare il livello 1, ma questo dipende dalla Presidenza del Consiglio». Alle 12.51 Zoli scrive a Brusaferro: «Sta tutto nell’isolamento preventivo OBBLIGATORIO. Quindi scuole chiuse, esercizi pubblici chiusi e tutte le altre disposizioni che hanno adottato i cinesi. Dobbiamo far partire quanto previsto con ORDINANZA al livello 1 del piano illustrato ieri». Alle 12.54 l’annuncio di Brusaferro: «Ministro già firmato ordinanza». A Codogno scatta la Zona Rossa. Commenta Zoli «Molto bene, BRAVI». Il piano, dunque, viene eseguito nei dettagli, e a Codogno si verifica esattamente quel che è successo a Jiangxi.

Il caso Codogno
Lo studio «The impact of non-pharmaceutical interventions on the COVID-19 outbreak in Codogno, Italy» dimostra – questo sì a posteriori – che aver seguito il modello cinese è stata un’ottima decisione.

L’11 febbraio l’Rt va sopra «1». Il 14 febbraio 9 casi, il 17 salgono a 20. Tra il 17 e il 20 l’Rt raggiunge il picco massimo a quasi «3». Venerdì 21 viene decisa la Zona Rossa che scatta formalmente il 23. Il 22 febbraio ultimo giorno di casi in crescita: 36. La curva si inverte. Il 2 marzo sono 16, il 6 marzo 9 e il 12 marzo 3. Anche qui a 18 giorni esatti da quando l’Rt supera l’«1» ritorna sotto l’«1».

Cosa non succede dopo
Il 28 febbraio alle 20.46 Merler comunica a Regione Lombardia «le prime stime su Bergamo, praticamente identico a quello di Codogno, prima della Zona Rossa. Il riferimento è al focolaio di Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana dove non scatta invece alcuna chiusura. La non-decisione che porterà all’inchiesta della Procura di Bergamo.

Il resto è ormai Storia. Solo i giudici stabiliranno se le scelte politiche, che giocoforza tengono conto anche degli interessi economici come fa presente il Tribunale dei ministri, possono costituire reato. È invece appurato che le informazioni per agire diversamente ci sono tutte, e senza attendere valutazioni ex post: semplicemente per la Val Seriana non vengono applicati i modelli di Jiangxi e Codogno.