Sul lavoro il Pd adotta l’agenda del M5s, con dieci anni di ritardo

Il palco della Cgil ha mostrato una convergenza sui temi del lavoro tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein, che in realtà indica una sovrapposizione del Pd alla linea del M5s. Ad esempio Schlein è favorevole al salario minimo, una proposta che il M5s porta avanti da dieci anni e che il Pd, quando era al governo con i grillini nel governo Conte II, ha impedito di introdurre. Così come non l’ha portata avanti quando, con il governo Draghi, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha proposto una soluzione di compromesso. Insomma, il Pd si è convinto della bontà del salario minimo in campagna elettorale e, soprattutto, dopo aver perso le elezioni passando all’opposizione.

L’altro punto d’incontro tra Schlein e Conte è la soppressione del Jobs Act, che il Pd ha approvato e contro cui il M5s si è strenuamente battuto.

Anche in questo caso, con dieci anni di ritardo, il Pd assume la linea politica del M5s. Nonostante, a parte l’ostilità verso Matteo Renzi e ciò che il Pd ha fatto al governo, non si capisca bene cosa il Pd schleiniano voglia abolire di quel che resta del Jobs Act, dopo gli interventi della Corte costituzionale e il decreto “Dignità” (a cui il Pd si è opposto) del governo Conte grilloleghista. Vuole reintrodurre l’articolo 18? Intende abolire la Naspi, un’indennità di disoccupazione più estesa di quelle precedenti che pare funzionare bene?

La discussione non è chiara e la confusione viene alimentata da alcune uscite, come quella di Giuseppe Conte, che proprio dal palco della Cgil ha dichiarato: “Tutto ciò che ha rappresentato il Jobs Act è un fallimento. Ci è stato venduto come lo strumento per perseguire maggiore occupazione, maggiore stabilizzazione dei lavoratori e maggiori incrementi salariali. Non lo dico io, ma Bankitalia nel novembre 2022: tutto questo un fallimento, ha prodotto solo più guadagni per i datori di lavoro”. Si tratta di un’affermazione falsa. Non volendo attribuire malafede a Conte, che sarebbe cosa scorretta, bisogna per forza di cose ricavarne che non ha capito cosa ha letto. Perché lo studio citato, pubblicato dalla Banca d’Italia nel novembre 2022, si riferisce al D.Lgs. 368/2001 – 14 anni prima del Jobs Act – che poi è stato sostituito proprio dal Jobs Act.

Sul tema la Banca d’Italia, o quantomeno i suoi ricercatori, si era espressa in termini molto diversi se non opposti. In uno studio del marzo 2016 di Paolo Sestito ed Eliana Viviano, dal titolo “Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market”, i ricercatori della Banca centrale valutavano proprio gli effetti della riforma del governo Renzi volta a ridurre il dualismo del mercato del lavoro per favorire l’occupazione. Prendendo in considerazione i provvedimenti principali, come la forte decontribuzione per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato e le nuove normative per rendere meno incerti i costi del licenziamento, Sestito e Viviano hanno concluso che entrambi i provvedimenti hanno contribuito ad aumentare le stabilizzazioni: “Circa il 40 per cento delle nuove assunzioni lorde complessive con contratto a tempo indeterminato è avvenuto per gli incentivi, mentre il 5 per cento è da attribuire alla nuova disciplina dei licenziamenti”. Le decontribuzioni hanno avuto un impatto maggiore, ma anche il nuovo quadro giuridico ha avuto un effetto positivo in quanto “le nuove regole di licenziamento hanno reso le aziende meno riluttanti a offrire posti di lavoro a tempo indeterminato a lavoratori non ancora provati”. Altro che fallimento.

In un altro studio del 2018, pubblicato sulla rivista “Economia italiana”, i due studiosi della Banca d’Italia hanno scritto anche che “il Jobs Act, mutuando l’approccio della precedente riforma Fornero del mercato del lavoro, ha contribuito a creare un sistema di assicurazione universale in materia di sussidi di disoccupazione più equo ed efficiente”.

Da un altro studio, degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, emerge che la riforma “è stata associata a un aumento della mobilità delle imprese e troviamo che l’introduzione del nuovo contratto ha aumentato le assunzioni nelle imprese con più di 15 dipendenti rispetto a quelle più piccole”. Se Schlein non dovesse fidarsi degli economisti di professione, potrebbe considerare i risultati certificati da Antonio Misiani, responsabile economico della mozione Schlein, che a fine 2015 condusse una ricerca sull’impatto del Jobs Act in Lombardia che mostrava un boom delle stabilizzazioni e dei nuovi contratti a tempo indeterminato: “I dati sono lì, da vedere: si tratta di un punto di svolta quasi rivoluzionario per il mercato del lavoro dopo anni di evidente declino”, diceva allora lo schleiniano Misiani.

A parte quindi le letture malcomprese degli studi di Bankitalia, non è chiaro cosa si contesti del Jobs Act. Ma è certo che Conte e Schlein intendano seguire il “modello spagnolo”, ovvero la riforma del governo socialista di Pedro Sánchez che ha reso più difficile assumere un lavoratore a tempo determinato, restringendone la durata massima e le causali, facendo diminuire il precariato. Va però considerata la differenza di contesto: in Spagna il mercato del lavoro era molto più precarizzato di quello italiano, con la percentuale di contratti a termine più alta d’Europa (oltre il 25 per cento). Adesso, dopo la riforma voluta dal ministro del Lavoro Yolanda Díaz, la quota di lavoratori con un contratto a termine in Spagna è scesa al 18 per cento, ma resta pur sempre più alta rispetto all’Italia del Jobs Act dove è al 16,4 per cento.