Sergio Leone la prova provata che gli intellettuali di sinistra non hanno mai capito niente

(FS) Sergio Leone (Roma, 1929-1989)  dopo l’apprendistato a Cinecittà seguì la sua naturale propensione al genere colossal allorchè esordì nel 1960 con un peplum (così si chiamavano i film storici o biblici), “Il colosso di Rodi”. Un enorme successo ( disse: ho dovuto rifiutare sei Maciste al giorno) che gli consentì di affrontare con il suo talento e la sua creatività un genere inedito fino a quel momento: gli “spaghetti-western”. E’ così che nel giro di quattro anni (dal 1964 al 1968) videro la luce quattro dei suoi più celebri capolavori: “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “C’era una volta il West”. Dopo il 1971, anno in cui uscì ‘Giù la testa’, passarono 15 anni prima di vedere nuovamente un Leone impegnato in regia: ‘C’era una volta in America’,  una sintesi di un quarto di vita trascorsa in America. Il film venne acclamato in tutto il mondo come una vera e propria perla cinematografica, basata peraltro su un cast d’interpreti straordinari (da James Wood a Robert De Niro). Fu anche l’ultimo lavoro firmato dal maestro che non riuscì a realizzare il film che stava preparando sull’assedio di Leningrado.

(Ebbi un processo per plagio dai giapponesi per la Sfida dei samurai di Kurosawa, ma io aspettavo una chiamata in tribunale da Omero perchè fu a quel genere di epica che mi ispirai). I personaggi di Omero sono gli archetipi degli eroi del West. Ettore, Achille, Agamennone non sono altro che gli sceriffi, i pistoleri e i fuoriegge dell’antichità. Gli intellettuali italiani di sinistra non lo potevano amare, perchè Leone non è un regista da cineclub. E’ un autore popolare, come Totò, e gli intellettuali non solo non  hanno mai capito cosa piace al popolo. Anzi disprezzano ciò che piace al popolo, compreso il Festival di Sanremo o Montalbano. Per farsi perdonare adesso danno al popolo bonus e redditi

(Marco Giusti) Su Sky è presente il ricco documentario dedicato a Sergio Leone, “Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America” diretto da Francesco Zippel, che la stessa Leone Film, cioè i figli, hanno dedicato all’opera del padre. Con una schiera di apparizioni celebri da far paura, da Tarantino a Spielberg, da Scorse a Chazelle, da Tornatore a Verdone, da Tsui Hark a Dario Argento, da Sir Christopher Frayling a Clint Eastwood. Troppo fatto in famiglia, diciamo agiografico, non una novità? Non resta che guardarlo. Anche se non ha la forza maniacale del film di Tornatore su Morricone, anche se il tema Leone è stato studiato da tanti documentari negli anni e i testimoni rimasti sono sempre di meno, devo dire che gran parte di quello che dicono soprattutto Tarantino e Scorsese, Frayling e Morricone, incredibilmente, aggiunge ancora ulteriore interesse all’opera di Leone. Sempre nuovi sguardi.

Al punto che avrei davvero voluto vedere un documentario tutto con Tarantino che parla di Leone, come il “Django e Django” di Luca Rea, o con Scorsese o Frayling che parlano di Leone. Anche se, da studioso e da televisivo, Stracult ha dedicato molti speciali a Leone, mi mancano in questo sontuoso documentario le storie più mitizzate dei film di Leone. Il suicidio sul set di Al Mulloch, i racconti di Mario Brega sulla fame sul primo film, il montaggio di “Il buono, il brutto, il cattivo” con Eugenio Alabiso, il primo giorno sul set di “Per un pugno di dollari” raccontato da Sergio D’Offizi.

Mi manca Giancarlo Soldi e la spiegazione del perché Leone si fece crescere anche lui la barba. Lo so che sono troppe storie da mettere assieme, ma certo trovo un po’ strano che non venga nominato nemmeno una volta Gian Maria Volonté, che per noi ragazzini al tempo, era importante quasi come Clint Eastwood, o non si sia cercata una vecchia intervista a Lee Van Cleef o a Henry Fonda. Mi ricordo che andai fino nella Murcia per intervistare Margarita Lozano. Ognuno fa il suo documentario. Si sa”.

E credo che la famiglia Leone e Zippel abbiano voluto fare qualcosa di definitivo su Sergio Leone che lo riportasse alla sua grandezza internazionale. Un percorso critico, che partì dai critici inglesi, come Christopher Frayling e francesi come Sylvie Pierre sui Cahiers, e toccò poi i registi della generazione di Tarantino costruendo tutto un nuovo mito del cinema di Leone. Escludendo gli italiani.

Perché Leone, non solo quando uscirono i primi film negli anni ’60, ma anche negli anni successivi, non è mai stato amato dalla critica italiana, diciamo fino a Tullio Kezich, che ha sinceramente odiato i suoi western con coerenza fino alla fine, amando, come tutti quelli della sua e della generazione soprattutto John Ford (e questa spiega il rovesciamento critico di Tarantino, che odia i film di Ford), nemmeno da Goffredo Fofi, che scrisse che i film western all’italiana, tutti, sono della “merda” su Positif, nemmeno da Ghezzi, che detestava solo il fatto che Leone si potesse paragonare a Ford, ma nemmeno dai nostri cineasti intellettuali.

Solo grazie alla presenza di Bertolucci e Argento come soggettisti di “C’era una volta il west” l’atteggiamento si modificò un po’. Ma Leone era visto come una sorta di enormità, assurdità italiana. Ford, si disse da subito, è un’altra cosa. A un certo punto pure di vacca da mungere per un cinema che pensava più alto. I registi di punta erano altri, da Luchino Visconti a Gillo Pontecorvo, che non volle confondersi col genere.

Mentre Pasolini capisce l’importanza degli spaghetti western e si butta nel genere come attore. Credo che ancora oggi, passati cinquant’anni, il problema tra cinema popolare e cinema alto, da festival, rimanga. Assurdamente. I fratelli Leone chiamano i più grandi registi del mondo a celebrare il padre e da noi si rimane indifferenti a tanto sforzo. E Leone oggi, magari, ci sembra troppo visto.

Tanti anni fa, quando uscì “per un pugno di dollari”, gli spettatori fiorentini e tra loro un giovane Carlo Monni andarono al cinema a fine agosto a vedere il film. Il primo giorno, al primo spettacolo. A Carlo piacque così tanto che rimase inchiodato in sala e se lo rivide fino a imparare le frasi più celebri a memoria. “Al mio mulo non piace che si rida, perché pensa che si rida di lui…”. Ecco. Senza bisogno di scomodare i critici, i premi, Ford e Tarantino, Carlo Monni aveva capito da subito, e noi allora con lui, come lui, la forza dei film di Sergio Leone. Una forza popolare. Impossibile da battere. Che ce ne facciamo dei premi?