La condanna della Juventus segna la fine del garantismo e il trionfo della giustizia del popolo

La condanna in sede sportiva della Juventus non è un fatto puramente sportivo né roba da tifosi. È l’ennesimo segnale che la breve illusione di un ritorno del garantismo è già finita, mentre torna alla ribalta il mai sopito sentimento di “giustizia del popolo”.

La giustizia sportiva, se possibile, ha dimostrato di versare in condizioni anche più precarie di quella ordinaria.

In un normale ordinamento di uno Stato di diritto, una delle poche certezze è lo scudo del “giudicato penale”, ovvero la certezza che una volta riconosciuto innocente dopo i vari gradi di giudizio niente potrà riportarti a subire un nuovo processo per lo stesso fatto.

Nell’ordinamento sportivo non solo è possibile ciò, ma il giudice, il medesimo giudice, può smentire sé stesso e dopo aver dichiarato che una determinata condotta ancorché opaca non è punibile perché manca una norma del codice che lo preveda, dopo qualche mese decida esattamente l’opposto e che di una legge si può fare a meno nella scia di ciò che indica una procura della repubblica.

Qui sta il punto delicato che riguarda tutti, anche chi non mastica calcio: la corte sportiva ha sconfessato sé stessa perché sollecitata dalla magistratura, a cui a sua volta viene rilasciato un primo timbro di validità sull’esito di una indagine clamorosa.

Questo giornale ha già avuto modo di spiegare le numerose perplessità sulle ipotesi di reato formulate dalla procura di Torino contro l’ex gruppo dirigente della Juventus che ha costruito la schiacciante superiorità societaria e calcistica del club per un decennio, ma ciò che va sottolineato è che, in barba alla decantata “autonomia” dell’ordinamento sportivo, in realtà come sempre nella realtà italiana, a partire dalla politica, conta solo ciò che decide la magistratura.

Nel caso della Juventus poi non c’è stato neanche bisogno di una sentenza di merito che accettasse i fatti garantendo il contraddittorio tra difesa e accusa.

Il tipico “italian job” giudiziario si accontenta di una richiesta di rinvio a giudizio, di ipotesi non vivisezionate in un processo pubblico ma frettolosamente citate in un dibattimento tenuto rigorosamente segreto come ai tempi dell’ inquisizione e, come ti sbagli?, del solito mucchietto di intercettazioni.

A quanto pare, vista l’assoluzione delle altre società, sono state queste l’elemento decisivo. Poco importa se non sono state ancora sottoposte a perizia, che non si è chiesta una spiegazione a chi certe frasi ha pronunciato.

Un’imbarazzante manifestazione di subordinazione culturale e politica ben simboleggiata dal timoroso ministro dello Sport Andrea Abodi che un minuto dopo la richiesta di revocazione della precedente assoluzione aveva già liquidato la questione dell’innocenza juventina («nel calcio si muore e si risorge») porgendo in anticipo le condoglianze.

Sarà un caso ma è un segnale che va ad aggiungersi alle polemiche pretestuose della magistratura sulla riforma Cartabia, all’aggressione insolente del loquace ministro Carlo Nordio, alle scomuniche di chi osi solo criticare l’anti-mafia di maniera, e l’idolatria del carcere.

Così, stasera, anche un qualsiasi tifoso milanista si chiede per chi suona la campana con la sgradevole sensazione che non sia solo per l’odiata Juventus.