Da libertari a censori/ Così negli anni Novanta la sinistra ha inseguito le sirene del politicamente corretto

Gli anni di Moravia e Pasolini, di Visconti e Antonioni, con gli intellettuali e gli artisti compattamente schierati contro la censura e a difesa della libertà di espressione, sono un ricordo lontano. Ormai la mutazione è avvenuta: difendere la libertà di espressione non fa più parte del DNA della sinistra, limitare quella libertà per far valere le ragioni del politicamente corretto è diventata un’opzione possibile.

Ma quando si è prodotta quella mutazione? Quando è accaduto che la sinistra smarrisse la sua vocazione libertaria, e incominciasse a inseguire le sirene del politicamente corretto?

Difficile indicare un momento preciso, ma a me pare che il periodo critico siano stati gli anni Novanta. È in quegli anni, infatti, che la globalizzazione falcidia i ranghi della classe operaia, tradizionale base di consenso della sinistra. È in quegli anni che nella sinistra riformista matura l’illusione che il mercato sia in grado di promuovere equità e merito, e forse pure la credenza che, tutto sommato, agli operai superstiti non sia necessaria una speciale protezione. È in quegli anni, infine, che la presenza e gli arrivi degli immigrati diventano massicci, e offrono alla sinistra una nuova opportunità di definire sé stessa.

È da questi cambiamenti epocali che, verosimilmente, ha preso le mosse il lungo percorso che – complice l’arrivo sulla scena del male assoluto Berlusconi – ha indotto i dirigenti della sinistra ufficiale a costruire l’identità del nuovo soggetto PDS-DS-PD essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra.

Anziché cercare di darsi una base elettorale a partire da un programma economico-sociale, la sinistra ha provato a ridefinirsi come paladina dei nuovi ultimi (gli immigrati) e dei nuovi diversi (LGBT) e, al tempo stesso, come rappresentante della «parte migliore del Paese». Insomma come custode del Bene, argine insostituibile all’avanzata delle destre, fonte perenne di autostima per i propri elettori, sempre più reclutati fra i ceti medi istruiti e urbanizzati.

E come poteva, una sinistra siffatta, non entrare in sintonia con le istanze del politicamente corretto? Come non aderire a un movimento che proclama rispetto delle minoranze, difesa dei deboli, apertura ai diversi, lotta alle discriminazioni, antirazzismo, antisessismo, giustizia sociale, cultura dei diritti? L’antico riflesso condizionato, che per tanto tempo ha portato la cultura di sinistra a giudicare il comunismo per i suoi (nobili) fini, anziché per gli (ignobili) mezzi con cui ha tentato di imporli, ha condotto e conduce la sinistra attuale a giudicare il politicamente corretto per gli obiettivi di giustizia che proclama, anziché per gli strumenti illiberali che adotta.  (…)

Il vero pericolo che corre la sinistra è che la sua ostinazione nel difendere il politicamente corretto e le sue pulsioni censorie offrano alla destra una insperata occasione di intestarsi la difesa della libertà di espressione: una battaglia storicamente non sua, ma che potrebbe benissimo diventarlo in futuro. Sarebbe un esito paradossale, una sorta di secondo swap dopo quello delle basi sociali di destra e sinistra. Se questo dovesse accadere, ci troveremmo di fronte a un inedito assoluto: una destra che difende la libertà di espressione e raccoglie il voto dei ceti popolari, contro una sinistra che difende la censura e attira il voto dei ceti istruiti e delle élite.