Homo smartphonicus/ Le nuove tecnologie sono una virtù, non possono essere trattate con vittimismo

Un tempo gli adulti sottovalutavano i giovani, che dovevano tacere, imparare, obbedire e non fare danni; il resto lo avrebbero fatto da grandi. La relazione educativa basata su una posizione di superiorità dei più maturi era simboleggiata dallo stesso telefono classico: un dispositivo posseduto dai genitori e usato dai figli solo per concessione.

Con le tecnologie smartphoniche abbiamo fatto un salto all’estremo opposto: i giovani oggi sono sopravvalutati, ci sembrano dei piccoli geni informatici competentissimi e di fronte ai quali oltre al famigerato «Spegni quel coso» salvifico, sappiamo dire poco.

È il complesso di inferiorità simboleggiato dall’hashtag: una realtà tecnica non padroneggiata che spinge a sentirsi tagliati fuori, poco autorevoli, inadatti a dire qualcosa, e che quindi produce un rifiuto psicologico che disincentiva a occuparsene. Eppure, siamo nell’epoca storica che avrebbe bisogno più che mai di un ritorno al termine medio: vedere i giovani per quello che sono e vedere noi, non più giovani, per quello che siamo.

Entrambi alle prese con un’onlife completamente nuova, tutta da capire e ancora da imparare a gestire. È l’effetto del potenziamento tecnologico: più comunichiamo, più possiamo vederci per ciò che siamo. Anche quando lo facciamo male, il fatto di esternare, di dire e scrivere costantemente, può avere un effetto di aumento dell’autoconsapevolezza; può essere materiale che emerge dall’inconscio al conscio, come in una gigantesca e costante seduta di analisi a cui tutti stiamo partecipando.

Il punto è voler guardare in faccia questa realtà. Sarebbe un peccato, infatti, sprecarla con atti di vittimismo, dando tutta la colpa ai social e alla tecnologia, dimenticando che l’umano è al centro di essi, come responsabile e protagonista. È, come descrive bene Maurizio Ferraris, un atteggiamento quasi superstizioso che sfocia nel negazionismo, cercando di attribuire a forze occulte e incontrollabili – il digitale, la rete, gli smartphone, gli hashtag – ciò che in realtà dipende da noi e noi soltanto.

Il ragionamento del filosofo suona più o meno così: le macchine sarebbero totalmente inutili in assenza di umani; la rete, i like, i messaggini non esisterebbero senza l’individuo che ci mette dentro i suoi consumi, frutto di bisogni, desideri, aspettative – e tutto l’insieme delle debolezze che abbiamo visto. Il che vuol dire che noi siamo letteralmente i signori delle macchine anche se poi, per autoassolverci dai nostri compiti, preferiamo percepirci come schiavi di esse.

Non è l’hashtag il problema, non lo sono nemmeno le istruzioni, l’età, i dispositivi, le piattaforme o le novità che ogni settimana la tecnologia sfodera: il centro della questione è nell’umanità in piena costruzione che ci troviamo a essere, anche con lo smartphone in mano. Chissà perché pensiamo che la storia della natura umana abbia una progressione lineare nel tempo. Crediamo che più andiamo avanti, più ci dovremmo aspettare chiarezza sulla nostra identità, su quale sia la direzione giusta da prendere per capire chi è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo, mentre invece, guardando alla storia, è successo l’esatto contrario.

Nelle tradizioni antiche, molto poco scientifiche e lentissime nelle innovazioni tecnologiche, l’idea dell’uomo era nitida e irreggimentata: ognuno aveva il suo posto nel mondo e quello doveva ricoprire. Chi se ne discostava veniva punito, isolato, emarginato. Gli eretici, gli spiriti liberi, i visionari: tutti spingevano verso nuove direzioni, ma presto venivano riportati nell’alveo della vita correttamente intesa, complice un contesto socioculturale che aveva un’idea abbastanza chiara di cosa era l’uomo, cosa il mondo, chi Dio, ecc.

Più siamo andati avanti e più abbiamo smarginato il ritratto ideale. Più la scienza e la tecnologia ci hanno potenziato e meno certezze sono rimaste sulla combinazione ideale della vita e del suo senso. Più la comunicazione è diventata attività quotidiana, comune, autoprodotta, potente, invasiva e più sono fioccate le domande esistenziali aperte.

Insomma, nell’epoca smartphonica doversi porre le questioni di senso fondamentali sulla vita connessa è ancora più importante e urgente rispetto al passato. Non ci si può più adagiare sulle abitudini mentali, sulle buone vecchie regole che da sempre funzionano, sulle definizioni e i punti di riferimento che hanno dato forma alle nostre vite pre‑smartphoniche.

Oggi ci troviamo in un’epoca caratterizzata da due elementi fondamentali, ovvero la profonda ricerca di senso e l’irrimediabile necessità di dare una forma sostenibile alla nostra vita; altro che priva di spirito e superficiale, come vorrebbero alcuni. Il problema è che questi due aspetti non possono essere imposti, ma devono essere scelti, il che significa che anche l’esatto contrario è ammissibile, ovvero rinunciare e rifugiarsi nel vittimismo dell’hashtag troppo difficile da comprendere, percependoci drammaticamente in balia delle tecnologie e sperare che qualche divinità inesistente ce la mandi buona, prima o poi.

Additare l’hashtag però è una distrazione bella e buona. Si innesta sul presunto problema delle istruzioni complesse, distraendo dal vero punto in questione: non basta saper usare gli apparecchi – anche perché «usare» è una parola troppo limitata per quello che la tecnologia sta potenziando, cioè le relazioni tra esseri umani.

Al saper far funzionare occorre aggiungere, infatti, l’essere in grado di finalizzare le nostre azioni per produrre un bene. L’hashtag si fa quindi ambasciatore di un bivio a cui l’uomo moderno si trova di fronte, dove la scelta della direzione da prendere non può più essere rimandata. Ammettiamolo, lo smartphone è sostanzialmente una scuola di virtù: di autocontrollo, di autoironia, di capacità argomentativa, di pazienza, di apertura alle novità, perfino di umiltà.