Per capire l’Italia/ Intervista a Luigi Zanda

CONCETTO VECCHIO (Repubblica) Luigi Zanda, lei è il figlio del capo della polizia negli anni Settanta.

“Efisio Zanda. Era nato a Cagliari nel 1914, antifascista, amava la musica e il teatro, buon giocatore di bridge. E’ stato uno dei miei grandi maestri insieme a Francesco Cossiga e ad Eugenio Scalfari”.

Scalfari?

“L’ho conosciuto nel 1976, subito dopo la nascita di Repubblica. Ero il portavoce di Cossiga e lui una mattina mi chiamò: “Lo sai vero che mi aveva promesso un’intervista? E invece l’ha data a Scardocchia del Corriere della sera!” Non ne sapevo nulla, provai a difendermi. E Scalfari, alzando sempre più la voce: “Voi siete sardi, ma io sono calabrese”. E mise giù”.

E lei che cosa fece?

“Andai da Cossiga e lui, sollevando gli occhi dalle carte, disse soltanto: ‘Luigi, levami questo pensiero’”.

Cioè?

“Voleva dire aggiusta la cosa. Richiamai Scalfari dopo qualche giorno. “Le Monde vuole intervistare Cossiga. Il tuo divieto vale anche per i giornali stranieri?”. Si mise a ridere e diventammo molto amici. Ci vedevamo ogni domenica per quella che chiamavamo la cena dei cretini. Scalfari mi ha immerso nella vita”.

Cosa intendevate con la cena dei cretini?

“Era un modo per prenderci in giro”.

Che ricordo ne ha?

“Aveva una memoria strepitosa. Faceva le interviste senza prendere un appunto”.

Con Cossiga invece come andò?

“Lo conobbi nel 1974. Ero segretario della Commissione governativa sulla crisi petrolifera, che aveva sede a palazzo Chigi. Ci vedevamo lì. Io sono di Cagliari, lui di Sassari, ci unì la sarditudine”.

Cossiga era complicato?

“Soffriva di depressione, di sbalzi d’umore, mi ha insegnato a guardare lontano e a cercare visioni larghe”.

Lei domani compie 80 anni. Pesano?

“Per fortuna non mi pesano. Ho avuto una vita ricchissima”.

Cosa ricorda dell’infanzia a Cagliari?

“Le elementari dalle suore. Se parlavi troppo ti appiccicavano due cerotti incrociati sulla bocca”.

Cosa facevano i suoi?

“Papà era funzionario dello Stato, mamma insegnava filosofia. Sono il primo di cinque figli”.

Famiglia borghese.

“Vivevamo nel rione Castello, in via Canelles. Cagliari era piccola, ci si conosceva tutti. Non c’erano ancora i frigoriferi e mi mandavano a prendere le lastre di ghiaccio per tenere in fresco il cibo. Poi nel 1950 i miei vollero venire a Roma”.

Perché?

“Per offrire un futuro ai figli. Mio padre lavorava al Ministero degli Interni, poi con il presidente del Consiglio Antonio Segni. Trovammo casa ad Ostia, mamma si alzava ogni mattina alle 5 per raggiungere il liceo a Tivoli. Prendeva il treno per l’Ostiense, poi l’autobus per Termini, un altro mezzo per Portonaccio, e da lì l’ultimo bus per Tivoli, un viaggio di tre ore”.

Com’era l’Italia del boom?

“Gli italiani fecero sacrifici inauditi peché sognavano un mondo nuovo e amavano la fatica del lavoro”.

Perché tiene in casa i quadri di Lenin e della Rivoluzione d’ottobre?

“Mi piacciono le bandiere rosse, ma non sono mai stato comunista. Quando lavoravo con Cossiga votavo per il Partito repubblicano, il Pri”.

Perché proprio per il Pri?

“Perché era laico, occidentale e moderno”.

Cosa ricorda dei 55 giorni del sequestro Moro?

“La prima lettera di Moro a Cossiga. Doveva restare segreta, invece le Br la resero pubblica. Lì capii che sarebbe stata dura salvarlo: non volevano trattare”.

Cossiga finì nel mirino per non avere impedito il sequestro.

“Era la sua ossessione. Gli vennero i capelli bianchi, la vitiligine alle mani. Quando entrai nella sua stanza la mattina de rapimento, il 16 marzo 1978, mi disse: ‘Luigi, sono politicamente morto’”.

Come fu possibile?

“Era uno Stato inadeguato. Io stesso ero inadeguato. Nessuno aveva una preparazione all’altezza della tragedia. E poi mancava una rete internazionale di cooperazione”.

Perché sul caso Moro ha sempre sospettato un intervento sovietico?

“C’è un filo che lega l’attentato a Berlinguer a Sofia nel 1973, l’uccisione di Moro e l’attentato al Papa da parte di Ali Agca. Quella del Kgb è una scuola che produce i suoi effetti nefasti anche ora, come vediamo drammaticamente in Ucraina e non solo”.

Le Brigate Rosse furono eterodirette?

“Non ci saprà mai davvero tutta la verità finché non saranno accessibili gli archivi delle grandi potenze: i tasselli che mancano non sono in Italia”.

Lei seppe di Gradoli, ma perché pensò al paese e non alla via?

“Fu Umberto Cavina, il segretario di Benigno Zaccagnini a dirmi di Gradoli, un paese sulla Cassia. Presi l’appunto su un suo biglietto da visita che trovai sul suo tavolo e tornato al Viminale informai il capo della polizia”.

Ma i terroristi stavano in via Gradoli. Senza quell’errore Moro forse poteva essere salvato?

“Non possiamo dirlo. Ma l’informazione riguardava il paese di Gradoli. Per fortuna misi quell’appunto in cassaforte. Conservavo ogni cosa sotto chiave”.

Che ricordo ha di Aldo Moro?

“Emanava allo stesso tempo profondità di pensiero e molta umanità. Era curioso anche di cose lontano da lui. Quando usciva dai loro incontri chiedevo sempre a Cossiga: “Ma che ti ha detto?” “Vuole sapere dei giovani, di quelli che contestano”. Una sera lo incontrai al teatro Sistina, era andato a vedere Rugantino. Un intellettuale che non disdegnava il popolare”.

Le è piaciuto Esterno notte?

“Specialmente la prima puntata, meno il resto, anche se ammiro Bellocchio. Non si parla mai abbastanza degli anni di piombo, i giovani devono sapere quali rischi ha corso la democrazia italiana”.

Chi nominò suo padre capo della polizia?

“Taviani, nel 1973. Era stato prefetto a Genova”.

Cosa ha fatto prima di diventare parlamentare del Pd?

“Ho diretto l’Agenzia per il Giubileo, il Consorzio Venezia Nuova che ha progettato il Mose, Lottomatica, le Scuderie del Quirinale, la Quadriennale di Roma, amministratore del Gruppo Espresso e della Rai. Negli anni di Tangentopoli gestivo tanti soldi. Sono fiero di non essere mai stato sfiorato da un’inchiesta”.

Qual è la lezione?

“Nelle aziende servono controlli rigidi interni, continui richiami a rigare dritto. E io avevo sempre davanti agli occhi l’insegnamento di mio padre: un uomo di Stato integerrimo”.

Lei è stato un potente?

“No. Non ho mai raccomandato nessuno”.

Non ci credo.

“Ho difeso persone di valore”.

Entra in politica grazie a Francesco Rutelli?

“Sì, mi chiese di candidarmi per la Margherita al Senato. Era il giugno 2003, avevo già 59 anni. Rutelli è stato un grande sindaco di Roma”.

Un’elezione senza avversari.

“Erano supplettive, in un collegio ai Castelli romani. La destra non riuscì a raccogliere le firme per proporre un proprio candidato e così mi trovai a gareggiare da solo”.

Il sogno di ogni politico.

“Eletto col 100 per cento dei voti, ma solo il 6 per cento dei votanti, record negativo. Un gol a porta vuota”.

Chi sono gli altri suoi amici in politica?

“Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Rino Formica, Gianni Cuperlo e Mario Draghi”.

Qual è stata la colpa più grande della politica italiana?

“Aver permesso l’enorme debito pubblico negli anni Ottanta. Si facevano finanziarie allegre, senza pensare che si stava mettendo una bomba ad orologeria nel sistema”.

Lei la politica l’ha frequentata per tutta la vita.

“Sì, nelle sue varie forme. C’è una costante: nella storia d’Italia ha sempre prevalso un vincolo esterno che ne condiziona l’agibilità. Prima era dato dalla presenza del Pci, oggi dal debito pubblico”.

Come valuta la classe dirigente del Paese?

“C’è da tempo una regressione. Nel Dopoguerra avevamo De Gasperi, Togliatti, Moro, Berlinguer, Mattei, Valletta, Paolo VI, Carli, Menichella, La Malfa. Fenomeni”.

E oggi?

“Siamo passati da un pensiero politico profondo al culto della tattica e delle carriere. In troppi vogliono occupare una poltrona politica come in un’azienda privata. Ho visto scene di disperazione in chi non è stato rieletto: la politica come droga”.

Ma la politica non è sempre stata così?

“Un tempo era anche pensiero, ideali, lotta. Oggi prevale l’ossessione per diventare ministro, sottosegretario, presidente di commissione”.

Non si è crucciato per non essere stato ricandidato?

“L’ho deciso io. Sono stato in Parlamento per vent’anni. E mi sono molto divertito. Ora ho finalmente tempo per fare altro: vedere gli amici, andare a un concerto, leggere un libro, scegliere un buon ristorante. E anche parlare di politica”.

Come se la sta cavando Giorgia Meloni?

“Ha dimostrato in più occasioni chiarissima inesperienza, però politicamente è ben attrezzata”.

Il Pd si salverà?

“Solo se saprà definire qual è la sua identità. Chi intende davvero rappresentare. Io avrei eletto un segretario traghettatore fino al congresso”.

Vedo che legge ancora i giornali di carta.

“Ogni mattina Corriere, Repubblica, Foglio. E sono abbonato a Internazionale, Civiltà cattolica, Limes e ll Mulino”.

Come festeggerà gli 80 anni?

“Con un viaggio in Italia”.

Ha rimpianti?

“Per lungo tempo mi è dispiaciuto non avere avuto figli, ora non è più un problema”.

Ha paura della morte?

“No. La razza sarda è forte”.