Giappone e Usa verso i 70 anni di età pensionabile (e disoccupazione giovanile ai minimi)

L’Italia continua a mandare in pensione le sue «pantere grigie» molto prima dei canonici 67 anni e perfino prima dei 65.  Il Giappone invece sta puntando ai 70.

Chi ha ragione? Come mai i Paesi dove i «senior» lavorano più a lungo (Giappone e anche Stati Uniti) sono quelli dove c’è meno disoccupazione giovanile?

A proposito dei cambiamenti in cantiere in Italia, come annunciato dal governo nella Manovra varata proprio oggi, «la novità per il 2023 sarà Quota 103. L’intenzione del governo Meloni è che per i 12 mesi del 2023 si possa lasciare il lavoro a 62 anni d’età (compiuti entro il 31 dicembre 2023) e 41 di versamenti. Questo canale di uscita è senza penalità».

Le pensioni in Giappone
Il Giappone è il paese pilota a livello mondiale in fatto di invecchiamento. Prima di ogni altra grande nazione industrializzata, il Sol Levante ha conosciuto un netto aumento della longevità in concomitanza con un calo delle nascite.

Denatalità più aumento della speranza di vita media hanno dato a Tokyo il «privilegio» di un record nella decrescita demografica. Nel biennio 2020-2021 la popolazione nipponica è scesa di 644.000 unità. Se queste tendenze dovessero prolungarsi in futuro, dagli attuali 125,7 milioni gli abitanti del Giappone potrebbero scendere fino a 88 milioni nel 2065, un declino del 30% circa.

Una delle risposte dei governi giapponesi all’aumento della longevità consiste nell’allungare l’età pensionabile. Già oggi il Sol Levante ha un record di anziani al lavoro: il 25% delle persone sopra i 65 anni restano in attività, contro il 18% negli Stati Uniti (altro caso interessante, su cui tornerò più avanti, per le differenze con l’Italia). L’anno scorso il governo di Tokyo ha fatto un ulteriore passo verso l’allungamento dell’età pensionabile, chiedendo alle grandi aziende di mantenere nei loro organici tutti quei dipendenti che desiderino lavorare fino ai 70 anni. La tappa successiva sembra essere quella di ufficializzare la nuova età pensionabile, sanzionando quelle imprese che licenziano personale sotto i 70.

A partire da quest’anno, al bastone si è aggiunta la carota, e l’orizzonte si è allungato ulteriormente. Tokyo offre un incentivo di questo tipo: 0,7% di aumento della pensione per ogni mese aggiuntivo lavorato, a coloro che accettano di rinviare il proprio pensionamento oltre i 65 anni. L’incentivo mensile è cumulabile fino al compimento dei 75. Il risultato è questo: per una persona che continui a lavorare per un decennio finale, dai 65 fino ai 75, l’incremento totale della pensione raggiungerà l’84%. Si avvicina cioè a un raddoppio dell’assegno mensile per gli anziani. La nuova normativa alza anche il livello delle pensioni per le quali è ammesso il beneficio, allargando così la platea ai redditi medioalti.

L’obiezione italiana all’approccio giapponese è nota: questo esercito di anziani che continua a lavorare a oltranza «occupa» posti che dovrebbero andare ai giovani.

Ma i dati smentiscono il luogo comune italiano. Il Giappone ha un tasso di disoccupazione giovanile del 4,3%, uno dei più bassi del mondo, e questo tasso continua a scendere proprio mentre viene ritardata l’età pensionabile degli anziani. Gli uni e gli altri lavorano di più, ai due estremi del ventaglio generazionale.

Le pensioni negli Stati Uniti
Questo fenomeno si nota anche negli Stati Uniti: in America per la maggior parte delle attività non esiste un’età obbligatoria in cui si è costretti ad andare in pensione per legge; e tuttavia la disoccupazione giovanile è più bassa che in Italia.

L’America ha eccezioni importanti (e sacrosante) nei lavori usuranti: poliziotti e vigili del fuoco, per esempio, abbandonano l’attività presto e i loro contratti di lavoro prevedono pensioni generose. Per i piloti di aereo o per i macchinisti dei treni o i guidatori di autobus scattano altre logiche basate sull’efficienza fisica, e nessuno li vuole al lavoro da ottantenni. Nei settori sindacalizzati questi accordi vengono definiti dai contratti collettivi.

Per molti altri invece il meccanismo decisivo è un sistema pensionistico basato sul «contributivo puro»: la Social Security fondata da Franklin Roosevelt nel 1934.

Detto in soldoni, significa questo: la tua pensione è strettamente proporzionale ai contributi che hai versato o che il tuo datore di lavoro ti ha trattenuto; di conseguenza sei libero di lasciare il lavoro quando ti pare, ma riceverai l’assegno della Social Security commisurato a quanto hai versato; più resti al lavoro più cresce la tua pensione.

L’idea alla base del modello italiano (e di quello europeo)
L’idea che il lavoro vada suddiviso tra generazioni, e che mandare a riposo il più presto possibile i «senior» sia un modo per fare largo ai giovani, è figlia di una visione dirigistica e pauperistica dell’economia, come strumento di razionamento della scarsità.

I governanti italiani (e anche di altri paesi europei altrettanto statalisti e dirigisti, come la Francia) immaginano il lavoro come una torta da fare a fette, sempre più piccole, per sfamare tutti. Ma è quasi solo nel pubblico impiego che in seguito ai prepensionamenti viene assunto qualche giovane. Il lavoro non è una risorsa scarsa.

Più siamo numerosi a lavorare più siamo numerosi a creare ricchezza, che diventa una risorsa anche per gli altri.

Nei paesi come Giappone e Stati Uniti dove ci sono più anziani al lavoro, quegli anziani creano un reddito e dei consumi che a loro volta generano altra occupazione. In America non esiste nessun divieto di lavoro a 70 o 75 anni, anzi c’è una legge contro l’ageism cioè la discriminazione sulla base dell’età.

È tutta europea, e profondamente falsa, l’idea che chi lavora stia rubando il lavoro ad un’altro. Eppure è l’America la patria del giovanilismo. Nelle aziende di innovazione, non c’è dubbio che un ventenne possa surclassare un vecchio arnese come me.

Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, erano tutti ventenni quando fondarono Microsoft, Apple, Facebook. Però la prevalenza dei giovani accade sul piano della competizione di mercato e del merito, non per un limite dirigistico imposto dall’alto.

Tornando al Giappone, quali sono cause e rimedi dei suoi problemi demografici? La denatalità nipponica è una scelta delle donne: si sposano meno, e anche quando si sposano fanno meno figli, o nessuno. Da un lato c’è un mercato del lavoro sempre più ricettivo per la forza lavoro femminile, e questo è positivo (un esempio: la partecipazione al lavoro delle donne tra i 25 e i 29 è quasi raddoppiata in cinquant’anni, passando dal 45% nel 1970 all’87% nel 2020). Sul versante negativo invece ci sono modelli culturali antiquati, eredità di una culturale patriarcale e maschilista: tra le sue manifestazioni, c’è una ripartizione iniqua delle responsabilità all’interno della coppia, per quanto riguarda l’educazione dei figli e le altre incombenze domestiche. Il fatto che le giovani donne giapponesi si sposino meno e facciano sempre meno figli è un risultato delle opportunità crescenti di realizzazione professionale, ma anche una sorta di protesta passiva contro i mariti che non sollevano le donne da tante altre fatiche.

Una caratteristica nipponica è il rifiuto di cercare nell’immigrazione una soluzione alla decrescita demografica. Il Sol Levante resta una civiltà «insulare» a tutti gli effetti, attaccata al proprio modello di valori, poco incline alla mescolanza etnica. Alla riduzione graduale della propria forza lavoro Tokyo preferisce rispondere con gli investimenti nella robotica, nell’automazione e nell’intelligenza artificiale, anziché importare lavoratori stranieri.

Infine il Giappone è, in un modo tutto suo, un caso di «decrescita virtuosa». Se si guarda ai dati sul Pil nazionale, aggregato, è dalla fine degli anni Ottanta che questo paese ha un’economia sempre vicina alla stagnazione. Questo non gli impedisce di rimanere la terza potenza mondiale dietro Stati Uniti e Cina. Soprattutto, la diagnosi della stagnazione cambia se invece del Pil nazionale si guarda al Pil pro capite. Un Pil che cresce poco o per niente, se si riferisce a una popolazione in calo coincide con un progresso dei redditi individuali e del benessere personale.

Non è un modello che debba piacere a tutti i costi, né gli si deve attribuire per forza un valore universale. Però riflettere sul caso Giappone, vista la sua lunga esperienza in fatto di denatalità, invecchiamento e spopolamento, può essere utile per mettere alla prova i nostri luoghi comuni, e sfidare i nostri preconcetti.