Concessioni balneari e taxi, come funziona l’Italia delle lobby

Chi ha ottenuto in concessione uno stabilimento balneare in cui ha investito, e che da decenni gli rende bene, può vantare il «diritto acquisito» a tenerselo senza partecipare a gare pubbliche e a canoni irrisori? Il proprietario delle spiagge è lo Stato, ma chi le può gestire, a quali condizioni e con quali canoni è una questione irrisolta da almeno 16 anni. È fin troppo evidente che un equilibrio fra interesse privato e quello pubblico non c’è. Il tempo per varare la riforma delle concessioni balneari scade fra tre mesi. Vediamo come stanno le cose.

Due ombrelloni per tre mesi
Dall’ultimo rapporto della Corte dei Conti i numeri sono chiari: le concessioni per le spiagge sono 12.166, e tra il 2016 e il 2020 hanno reso allo Stato solo briciole: in media 101,7 milioni di euro l’anno. Dal 2021 è stato introdotto il canone minimo annuo a 2.500 euro, che nel 2022 sono diventati 2.698 per gli aumenti Istat . Una cifra che si ripaga con l’affitto di 2 ombrelloni per 3 mesi a 15 euro al giorno. Certo ci sono spiagge (pochissime) dove il canone è più alto, ma più alto è anche il prezzo dell’ombrellone. Bisogna poi aggiungere i costi dei bagnini e della manutenzione della spiaggia, ma anche i ricavi del servizio bar o ristorante. Una sproporzione fra fatturati e canoni a danno della redditività per l’Erario, già segnalata sia dalla Corte dei Conti sia nei documenti di economia e finanza (Nadef 2018).

Rinnovi automatici e taciti
Succede perché finora chi si è aggiudicato una concessione balneare se l’è tenuta grazie a rinnovi taciti e automatici. Ciò è stato possibile anche perché il Codice di navigazione, che risale al marzo 1949, prevedeva il «diritto di insistenza»: vuol dire che chi già ha una concessione vanta il diritto di essere preferito a terzi nella riassegnazione. Nel 2009 il «diritto di insistenza» viene eliminato sotto la minaccia di una procedura di infrazione Ue per il mancato rispetto della «direttiva Bolkestein» del 2006 che invece prevede l’obbligo di procedure pubbliche imparziali e trasparenti . Contemporaneamente, per allinearsi alle richieste della Ue, viene annunciata la necessità di rivedere le regole.

Nessuno decide
Da quel momento in poi nessuno osa mettere mano alle norme sull’assegnazione delle concessioni, e si procede di proroga in proroga: il governo Berlusconi IV fa slittare il termine al 31 dicembre 2015 , il governo Monti al 31 dicembre 2020, il governo Conte 1 addirittura al 31 dicembre 2033 (legge di bilancio 2019, la 145 del dicembre 2018). Così a dicembre 2020 ci viene notificata dall’Ue una nuova procedura di infrazione, e nel novembre 2021 il Consiglio di Stato sancisce che il rilascio o il rinnovo delle concessioni balneari deve avvenire con procedura di evidenza pubblica, fissando il termine delle attuali concessioni al 1° gennaio 2024 (qui e qui i documenti).

Il Ddl Concorrenza
La svolta politica arriva con gli articoli 3 e 4 del Ddl Concorrenza approvato lo scorso agosto dal governo Draghi: la scadenza delle concessioni in vigore (date generalmente dai Comuni) è fissata al 31 dicembre 2023 o, in caso di pendenza di un contenzioso o difficoltà nell’espletamento della gara, al 31 dicembre 2024. Niente più rinnovi automatici, ma gare pubbliche che devono ispirarsi ai princìpi di imparzialità, trasparenza e adeguata pubblicità. Gli investimenti e la professionalità acquisita da chi già gestisce le spiagge vanno tenuti in considerazione, così come sono previsti indennizzi per gli eventuali concessionari uscenti a carico di chi subentra.

Il Ddl Concorrenza, dunque, tutela sia gli attuali titolari delle concessioni e i loro investimenti, sia l’interesse pubblico di fare fruttare meglio i beni demaniali

E fissa una data: entro febbraio 2023 emanazione dei decreti con i criteri per le gare pubbliche.

Nuovi ostacoli
Ed è quello che deve fare il nuovo governo: a occuparsi della materia saranno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro del Mare Nello Musumeci. Il dossier sarà preparato da un Comitato interministeriale di coordinamento delle politiche del mare (Cipom) sotto la guida di Palazzo Chigi. Agli imprenditori balneari, da anni sulle barricate, la stessa Meloni in una lettera del 3 novembre assicura: «Il nostro governo difenderà le imprese balneari italiane e le famiglie che lavorano nel settore. L’Italia non può permettere che le proprie spiagge finiscano in mano a chissà chi, con il rischio di distruggere un tessuto economico sano e di mettere in pericolo anche l’integrità dell’ambiente». Intende dire che i concessionari rimangono gli stessi perché il governo non riesce a definire dei criteri di gara che garantiscono l’interesse pubblico?

L’altro fronte irrisolto: i taxi
Nello stesso Ddl Concorrenza c’era anche la delega al Governo per riscrivere entro 6 mesi le regole sui taxi, un servizio pubblico la cui prestazione deve essere obbligatoria, capillare sul territorio e accessibile economicamente. La legge che disciplina il settore è la n. 21 del 1992 che rinvia ai Comuni il compito di stabilire il numero di licenze, i turni con il numero di taxi per fasce orarie e le tariffe (art. 5). Chi ha una licenza è titolare di un’impresa artigiana, e iscritto alla Camera di Commercio dopo avere superato l’esame per ottenere il «ruolo di conducente» (solo dopo i 21 anni). Chi ha una licenza da più di 5 anni, o ha compiuto i 60 anni, o per malattia, può indicare al Comune a chi trasferirla. In caso di morte può passare a uno degli eredi, o a chi indicato da loro (art. 9).

Numero di licenze al palo
In media in Italia c’è un taxi ogni 2.000 abitanti contro i 1.160 della Francia (qui) e i 1.028 della Spagna. Nelle 110 principali città italiane le licenze sono 23.139, più o meno le stesse di 15 anni fa. A Milano erano 4.855 e oggi sono 4.852, e le ultime, rilasciate dal Comune a titolo gratuito risalgono al 2004.

Ad agosto 2019 l’allora assessore ai Trasporti Marco Granelli ammette: «È necessario ampliare il contingente in servizio con 450 nuove licenze». Il motivo? Sulle 33.400 chiamate al giorno tra le 8 e le 10 ne risulta inevaso il 15%; tra le 19 e le 21 il 27%, il sabato e domenica tra le 19 e le 21 il 31%; tra mezzanotte e le 5 il 42%.

Tutto rinviato poi per il Covid, ora c’è da vedere se e quando la questione sarà ripresa. A Roma in quindici anni sono passati da 7.710 licenze a 7.703, e le ultime 500 sono state assegnate nel 2008. Per fare fronte all’alta richiesta insoddisfatta di taxi tra luglio e settembre il Comune modifica le regole dei turni ben 4 volte per dare ai tassisti la possibilità di allungare gli orari nel fine settimana; fare lavorare un sostituto e avere turni di 12 ore contro le 8 e mezzo precedenti. Si legge nell’ordinanza: risposta deludente, la domanda dei taxi resta inevasa. In sostanza le licenze sono poche.

Uber e compagnia
L’altra questione da risolvere riguarda il mercato parallelo delle piattaforme digitali, come la californiana Uber black che connette passeggeri e autisti NCC (anch’essi con licenza ma che non svolgono servizio pubblico): l’app permette di conoscere in anticipo il costo della corsa. Come l’italiana Wetaxi. Poi c’è la tedesca Freenow che lavora con i tassisti e permette di pagare la corsa dal cellulare (per esempio con PayPal). Tutto questo nuovo mercato oggi si autoregolamenta.

Cosa diceva il Ddl Concorrenza
L’articolo 10 del Ddl Concorrenza prevedeva di promuovere la concorrenza, anche con il rilascio di nuove licenze, e di regolamentare l’uso delle piattaforme tecnologiche per mettere in contatto passeggeri e conducenti. Ma l’articolo viene stralciato lo scorso 21 luglio dopo l’ennesima rivolta della lobby dei tassisti (qui il Ddl concorrenza e qui lo stralcio): più licenze fa perdere mercato e valore alle licenze stesse vendute anche a 150-200 mila euro.

Uno stralcio rivendicato da Francesco Lollobrigida, braccio destro di Giorgia Meloni: «È merito di Fratelli d’Italia e di tutto il centrodestra». Mentre l’Autorità indipendente per i trasporti chiede una revisione delle regole almeno dal 2015 e cresce la domanda di servizio taxi, prosperano gli abusivi.