Non si può fare? E invece sì: Roma, il liceo senza voti

La «scintilla» gli è scattata quando ha programmato una visita al museo della Scienza: «I ragazzi erano entusiasti, non vedevano l’ora. Ma quando ho spiegato loro che al ritorno avrebbero dovuto portarmi una relazione, una studentessa è sbottata: “Ecco, tutto rovinato, e pensare che lo sognavo da mesi”. Sono rimasto stupito: poi ho capito che proponendogli un report, avrei rovinato un’esperienza, che non l’avrebbero più vissuta con gli occhi della curiosità e dell’entusiasmo». Così Enzo Arte, prof di matematica e fisica, ha iniziato a elaborare nella sua testa l’idea di una scuola senza valutazione, senza giudizio, ecco: il liceo senza voti. Che al Morgagni di Roma è ormai realtà da sette anni. In un’epoca in cui il merito, il giudizio, il valore, sono oggetto di dibattito anche politico, qui il paradigma si capovolge.

Iniziata come sperimentazione in una sola classe, si è allargata all’intera sezione, e ci sono già due classi di diplomati col sistema super sperimentale. Come funziona? Gli studenti vengono interrogati, sottoposti a verifiche e controlli, ma i professori non esprimono numericamente i loro giudizi: ma spingono loro a capire quanto e come hanno studiato, cosa potrebbero fare per migliorarsi, come potrebbero approfondire, con l’appoggio degli altri compagi di classe. Il voto compare, solo per dovere istituzionale, in pagella, alla fine del quadrimestre, ma viene prima condiviso e discusso in classe, perché nessuno «ci rimanga male».

Complicato? «Un po’ – spiega Arte- Quando ho presentato il progetto in collegio docenti, non tutti erano convinti. Ma la preside mi ha appoggiato e alcuni colleghi mi hanno dato una sponda meravigliosa, e così siamo partiti. Se togli i voti, ovviamente togli l’obiettivo finale dell’insegnante, e allora devi capovolgere tutto: i professori devono coinvolgere e motivare tantissimo. E poiché tutti gli studi di pedagogia dicono che si impara meglio da pari, bisogna anche promuovere la collaborazione tra studenti. Così è partita l’idea dei lavori di gruppo, di tutoring, di cooperative learning. I ragazzi interagiscono tra di loro sia a casa che in classe, e usano il tempo scuola in maniera efficace. La scuola italiana si fa così: si spiega e poi si fanno i compiti, siamo la scuola dove si fanno più ore in classe e più ore a casa, non dare compiti a casa per l’insegnante è una bestemmia. Noi cerchiamo di invertire la rotta: a scuola si fa tanto e si impara». I docenti sono stati preparati con corsi e incontri a gestire la nuova classe: «È venuta la professoressa Daniela Lucangeli, tra gli altri, e ci ha spiegato che i cittadini italiani subiscono il massimo dello stress in età scolare, che poi diminuisce in età lavorativa. Gli altri Paesi hanno una curva meno ansiogena. I ragazzi che studiano senza lo stress dei voti sono più liberi dalle immondizie emotive, vivono un processo di apprendimento più sereno».

Le famiglie? «Qualcuno ha portato via suo figlio, non condividendo. Molti hanno avanzato dei dubbi, ma poi si sono ricreduti: vedere i propri figli che vengono a scuola con il sorriso sulle labbra è una gioia». E come si fa a fare un confronto con il metodo tradizionale? «Non è facile, ma La Sapienza ci sta studiando, siamo diventati un laboratorio del corso di Pedagogia sperimentale e così stanno monitorando pregi e difetti. La mia sensazione? È che questi ragazzi raggiungano lo stesso livello culturale degli altri, ma maturando competenze trasversali che gli altri non hanno, come il lavoro in team e l’autonomia, che all’università o nel mondo del lavoro servono tantissimo». Il progetto è stato anche premiato al festival dell’Innovazione scolastica di Valdobbiaddene e sono molti gli istituti superiori che lo «spiano» per poter provare a imitarlo.

Le testimonianze
Gianluca Petrassi, 19 anni, iscritto a Economia e commercio, conferma: «I lavori di gruppo mi sono tornati utili, perché sono già impostato rispetto ad altri. E poi sono riuscito a sviluppare tante attività extracurricolari: sono riuscito ad ottenere la certificazione massima di inglese, a entrare alla Bocconi, ho partecipato al campionato di agonistica di rugby. In una sezione normale avrei dovuto rinunciare a qualcosa. Il rapporto con i prof era molto più leggero e proficuo, non c’erano paure a comunicare. Certo, forse ci mette un po’ a prendere piede, è un metodo diverso di approccio allo studio, e quindi magari lasci qualcosa indietro: all’inizio la differenza si sente tanto a livello di impatto, non si ha ancora la maturità per cogliere appieno il progetto. Ma una volta che lo comprendi, capisci che funziona». Pregiudizi da parte degli altri? «Beh, sì- ammette Irene Giampaolo, anche lei neo diplomata e iscritta a Scienze e cultura enogastronomica a Roma Tre- Eravamo noti come la sezione dove non si fa niente. E all’inizio non tutti i prof rispettavano il metodo, quindi dovevamo alternarci tra studio classico e non. Poi man mano abbiamo trovato un equilibrio: e alla fine posso dire che ho vissuto il liceo come un’esperienza bella e rilassante, positiva, non stressata dal dovere di fare compiti e interrogazioni». Infatti la definizione ufficiale, chiarisce Ariana Chihai, ora iscritta a Scienze naturali, è «scuola delle relazioni e delle responsabilità» perché lo «studio non si prende così tanto con ansia, e perché le relazioni sono più libere, meno tese. Con le interrogazioni programmate ci concentravamo meglio ed esponevamo al meglio, davamo sempre il massimo. E con pochi compiti a casa avevamo molto più tempo per fare anche altro». Il senza voti diventa anche uno strumento utile per chi ha qualche fragilità, come spiega Daniela Chiassi, consigliere parlamentare: «Io sono la mamma di un ragazzo di sedici anni molto sensibile, che frequenta il terzo anno: non doversi confrontare continuamente con voti e valutazioni è confortante. Ma non è solo quello: il senza voto ha senso perché inserito in una cornice di un più ampia. Il metodo è farli lavorare insieme, in modo non frontale, scoprire la materia, lavorandoci in gruppo, favorire la socializzazione, creare un contesto diverso di apprendimento, che va molto meglio soprattutto per ragazzi, non disabili, ma semplicemente che hanno una timidezza, o una esuberanza eccessiva, e invece così hanno modo di autoregolamentarsi e stare insieme. Mio figlio si trova bene, è contento: Davide ha un po’ di asperger, ma ha trovato un contesto che lo gratifica molto, l’ho visto migliorare moltissimo nella socialità. Credo che dovrebbe essere così tutta la scuola: far venire voglia di apprendere, e non paura di starci per il timore di essere giudicati».