Il M5s torna putiniano, dimentica i decreti sicurezza e rivendica il no a trivelle e termovalorizzatori

Di tutte le critiche che Enrico Letta avrebbe potuto legittimamente rivolgere a Giuseppe Conte, il segretario del Partito democratico è riuscito a trovare, come spesso gli capita, l’unica che proprio non poteva permettersi: «È ossessionato da noi». Non c’è bisogno di nutrire particolare simpatia per il Movimento 5 stelle per riconoscere che, semmai, è vero il contrario.

Dopo avere sacrificato ogni questione di merito e di principio all’accordo con i grillini per quasi tre anni, infatti, il Pd ha deciso di rompere con loro giusto alla vigilia del voto, per ricominciare a corteggiarli un minuto dopo, come se nulla fosse successo.

Come tutte le relazioni tossiche, anche questa si basa sulla convinzione, continuamente ripetuta dal partner più debole, che l’altro sia molto cambiato. Nel caso del Movimento 5 stelle è però evidente come la presunta maturazione europeista, atlantista e occidentale, nel movimento che fino a poco prima non esitava a partecipare al congresso del partito di Putin e a difendere l’annessione della Crimea, era solo una delle tante mosse tattiche, sempre reversibili.

La campagna di Conte per negare alla resistenza ucraina l’invio delle armi necessarie a difendersi, dopo infinite giravolte e giochi di parole, è condotta ormai apertamente, a partire dall’annunciata decisione di votare contro ogni nuovo invio. Ma non c’era bisogno della sfera di cristallo per sapere che a questo si sarebbe arrivati, anche quando, sempre per ragioni tattiche (dette anche sondaggi), i Cinquestelle votavano a favore: bastava leggere il Fatto quotidiano o guardare i talk show di La7.

Goffredo Bettini, Andrea Orlando, Nicola Zingaretti e tutti coloro che insistono nel perorare la causa dell’accordo strategico con Conte dovrebbero dunque dire chiaramente se condividono la sua posizione sulla guerra in Ucraina, comprese le sue critiche al ruolo dell’Europa, degli Stati Uniti e della Nato. Intendiamoci: non mi stupirebbe che le condividessero, ma troverei utile che lo dicessero chiaramente. In caso contrario, sarebbe ora di chiudere definitivamente il capitolo dell’alleanza strategica con i grillini e metterci una pietra sopra.

Se poi una divergenza sulla principale questione di politica internazionale non dovesse sembrare un motivo sufficiente per non allearsi, perlomeno alle regionali, le parole di Conte sul termovalorizzatore dovrebbero chiudere la questione anche a livello locale. E non solo a Roma.

E cosa dire di un problema fondamentale tanto dal punto di vista politico quanto dal punto di vista etico, giuridico e umanitario, come il rifiuto di far attraccare le navi che prestano soccorso ai naufraghi? Il tentativo di riscrivere il passato anche su questo, facendo intendere che ai tempi del primo governo Conte fosse tutta colpa di Matteo Salvini, fa più pena che rabbia. E certo non può cancellare il ricordo del ministro alle Infrastrutture di allora, Danilo Toninelli, che in televisione accusava il leader leghista dell’esatto contrario, e cioè di strappare a lui, al Movimento 5 stelle e all’intero governo il merito di quelle scelte.

Si potrebbe proseguire così per mille pagine, ma non ce n’è bisogno: chi è realmente interessato a capire, in buona fede, ha già capito. E il Pd pure.

L’unico tassello che vale la pena di aggiungere è il tweet con cui qualche giorno fa Conte ha rimproverato a Giorgia Meloni le sue passate dichiarazioni contro le trivelle, ai tempi del referendum. Il consueto miscuglio di irresponsabilità, complottismo, cinismo (in una parola: populismo) che appena arrivata al governo, per forza di cose, si è dovuta rimangiare. Conte ovviamente le rimprovera di esserselo rimangiato.

Ma se è per questo, all’epoca Meloni aveva parole ben diverse anche su Putin, per non dire dell’Europa. Seguendo l’argomentazione di Bettini e Zingaretti, dovremmo forse concluderne che oggi è Meloni a rappresentare un punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste. E dunque è con Fratelli d’Italia che il Pd dovrebbe allearsi.

Inutile aggiungere che si tratta di una battuta, perché è evidente a tutti che di qui al 12 marzo, giorno fissato per le primarie, del Pd non sarà rimasta più alcuna traccia. A meno che nei prossimi giorni qualcuno non si faccia coraggio, si decida a rimuovere sacchi di sabbia, cavalli di frisia e filo spinato dal corridoio, e vada a bussare una buona volta alla porta di Enrico Letta.