Michele Salvati/ Perché i Dem non devono temere la socialdemocrazia

Per un quarto di secolo ho dedicato al Pd — e, prima che esistesse, all’“idea di un Pd” — buona parte del tempo che impegni familiari e di lavoro mi lasciavano libero. L’idea si formò mentre ero parlamentare, nella 13esima legislatura, durante le discussioni della Commissione Bicamerale sulla riforma costituzionale, ed era ingannevolmente semplice: data la turbolenza della situazione politica e le possibilità di radicali mutamenti istituzionali che questa sembrava aprire, perché non costruire un partito che raccogliesse tutti i progressisti del nostro paese? Domanda: che tipo di partito? Risposta: un partito socialdemocratico, quello che era stato soffocato dal bipartitismo imperfetto del dopoguerra e della Prima Repubblica, dalla Dc e dal Pci più Psi. Bisognerà infatti aspettare Craxi e la fine degli anni ’70 prima che la sudditanza ideologico-politica dei socialisti rispetto ai comunisti venisse superata. Per una di quelle svolte ironiche di cui la storia offre numerosi esempi, Mani Pulite spazzò poi via il vincitore della contesa ideologica tra Comunismo e Socialdemocrazia… E arrivò Berlusconi.

Già ai tempi di Bernstein e della discussone che si sviluppò nel primo ’900 nella socialdemocrazia tedesca, i caratteri di fondo di un partito socialdemocratico erano ben chiari. A) L’accettazione e l’estensione dei principi di uno stato liberal-democratico, ivi incluso quello della libertà di impresa e di mercato; B) il gradualismo e il riformismo, derivanti dalla consapevolezza che un’economia di mercato può sopravvivere e prosperare anche in assetti sociali più egualitari di quelli allora esistenti, se ci fosse una continua spinta in questa direzione: “il movimento è tutto”, come diceva Bernstein; C) questa spinta, e il partito che se ne fa interprete, avrebbe però dovuto contemperare sia l’esigenza di tenere in vita, ed anzi stimolare, una crescita economica sostenuta quanto le circostanze del capitalismo internazionale consentivano, sia l’obiettivo di migliorare continuamente le condizioni di pari opportunità — economiche, sociali, culturali — dei ceti più svantaggiati della popolazione.

Molte cose sono cambiate rispetto ai tempi di Bernstein e anche a quelli, assai più recenti, dell’epoca d’oro della socialdemocrazia, nei trent’anni “gloriosi” dopo la Seconda guerra mondiale. Le socialdemocrazie erano, e tuttora sono, partiti legati a singole realtà nazionali e alle condizioni di benessere che lo sviluppo capitalistico e le tecnologie fordiste allora adottate avevano indotto. Tutte hanno sofferto quando la crescita economica è rallentata, la globalizzazione divampata, la rivoluzione tecnologica ha favorito fasce più ristrette e più istruite della popolazione, movimenti populisti e sovranisti hanno loro sottratto il consenso dei ceti più svantaggiati. Ma i tre criteri che definiscono una socialdemocrazia non hanno perso il loro significato interpretativo e il loro valore normativo. E, di fatto, alcune hanno resistito a questi cambiamenti meglio di altri.

Ma veniamo a noi, al Partito Democratico e al Congresso che sta per iniziare. A questo scopo ritorno al terzo carattere di fondo di una socialdemocrazia, e in particolare alle due esigenze che essa deve contemperare, la crescita economica in un contesto di economia di mercato e il maggior benessere possibile per i ceti più deboli della popolazione. Le due esigenze devono essere entrambe presenti e in una dialettica continua all’interno dello stesso partito, non dare origine a partiti diversi che ne accentuino una a discapito dell’altra: in questo caso logiche organizzative inevitabili in partiti che cercano di pescare nello stesso bacino di consensi elettorali rischiano di produrre conflitti insanabili e soprattutto di snaturare l’identità socialdemocratica del partito d’origine. E ancor peggio avviene se una delle due esigenze viene “appaltata”, tramite una stretta alleanza, a un partito che non rispetta i tre caratteri essenziali della socialdemocrazia che ho descritto più sopra. Purtroppo, il Pd non è il Labour Party in cui legge elettorale e tradizione rendono estremamente costosa una scissione: se si votasse ora, il Labour stravincerebbe le elezioni, dopo aver superato la fase corbyniana, durante la quale i riformisti hanno sofferto ma non hanno abbandonato il partito.

Queste sono le ragioni per cui ho apprezzato lo sforzo di Letta di tener unito il partito e far rientrare chi se ne era distaccato. Non ci è riuscito: onore per aver tentato. Ma anche se il Pd riuscisse a restare unito e con un chiaro programma socialdemocratico resterebbe, e anzi acquisterebbe maggiore evidenza, il problema che rende molto difficile conciliare nel nostro paese democrazia e crescita economica. È un problema che qualsiasi interprete onesto della storia del nostro paese non può non riconoscere, e riguarda tutti i partiti che accedono al governo. Non solo il Pd: esso sta anche alla base dello scetticismo con il quale è ragionevole guardare al futuro dello schieramento di destra-centro che ha vinto le scorse elezioni.

Per tornare a crescere l’Italia ha bisogno di riforme istituzionali, economiche, sociali così profonde e impopolari — e sostenute per un tempo così lungo prima che si manifestino i loro effetti benefici — che elettori impoveriti e insoddisfatti non tornerebbero a votare per il governo in carica, sia che esso tenti di attuarle, sia che tiri a campare, com’è sempre avvenuto negli ultimi trent’anni («il potere logora… chi ce l’ha»). Questo potrebbe dare al Pd la possibilità di tornare al governo nelle prossime elezioni, ma solo se non dicesse la verità agli elettori e usasse gli stessi metodi reticenti e populistici usati dai suoi avversari. Ma in questo modo il problema del declino italiano — dal quale trae origine da ultimo l’insoddisfazione degli elettori — resterebbe aperto, anzi, si aggraverebbe, e, in condizioni di emergenza un ritorno di “governi tecnici” potrebbe risultare inevitabile.

È troppo sperare che qualche riflessione su questi problemi si possa avviare già nel corso del congresso? Ci sarà poi il tempo necessario per approfondirle in seguito.