Le ambigue parole di La Russa su Trump piuttosto che su Mussolini

Ignazio La Russa comincia il suo primo discorso da presidente del Senato dicendo: «Non ci crederete, ma non l’ho preparato minimamente». E infatti non ci crede nessuno. Quindi inizia a ringraziare «tutti quelli che mi hanno votato, quelli che non mi hanno votato, quelli che si sono astenuti e, se me lo consentite, quelli che mi hanno votato pur non facendo parte della maggioranza di centrodestra» (verosimilmente il ringraziamento più sincero, e certo non l’unico che i destinatari attendono), per poi passare, con «pensiero deferente», al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al suo predecessore, Giorgio Napolitano, e di qui ai predecessori dello stesso La Russa, Maria Elisabetta Alberti Casellati («una cara amica, ma più che un’amica una persona di grande spessore umano e culturale») e Marcello Pera («che saluto e ringrazio, come tutti i presidenti che lo hanno preceduto»).

E poi ancora «coloro che con me hanno fatto i vicepresidenti della presidente Casellati: la senatrice Rossomando, la senatrice Taverna e, in particolare, lo capirete benissimo, il mio amico Roberto Calderoli» (il motivo è chiaramente il suo passo indietro nella corsa alla presidenza del Senato), e infine, un attimo prima che il discorso prenda definitivamente la piega del saluto alla quinta B e a tutti quelli che mi conoscono, un «deferente omaggio» al Papa, seguito da un pensiero per le forze armate, in particolare ai caduti, con «deferente omaggio» anche a loro.

La lunghezza e la solennità dei ringraziamenti preliminari si accorda perfettamente con i quasi trenta minuti di discorso – la mezz’ora più buia, almeno dal punto di vista retorico – che spazia non agilmente dall’ambiente («che non è solo flora e fauna») alla violenza sui minori e sulle donne (che è «lo squallore della società»), dalla guerra in Ucraina agli anni di piombo, con diverse incursioni autobiografiche, quasi intimiste, che ruotano però sempre attorno allo stesso tema: le divisioni del passato e la necessità di una riconciliazione nazionale.

Al riguardo, La Russa cita in conclusione il famoso discorso pronunciato da Luciano Violante dopo l’elezione a presidente della Camera, omettendone tuttavia, pudicamente, i passaggi più controversi (come quello in cui Violante invitava a «sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà»). Discorso che risale tuttavia al 1996, quasi trent’anni fa. Possibile che siamo ancora a quel punto? Ovviamente no.

Per convinzione o per consunzione, la questione della riconciliazione nazionale direi che possiamo darla per chiusa, almeno quella, che si tratti della guerra civile combattuta ottant’anni fa o anche dei suoi rigurgiti degli anni settanta (anacronistici già allora, e comunque risalenti pure quelli, ormai, a mezzo secolo fa).

La Russa è già stato ministro della Difesa nel 2008 e vicepresidente della Camera addirittura nel 1994. È un decano del parlamento e sarebbe ridicolo considerare la sua elezione al vertice di Palazzo Madama come un pericolo per la democrazia o anche solo il simbolo di chissà quale cambiamento intervenuto nella politica italiana, che questa è, piaccia o no, da almeno tre decenni.

Quel che preoccupa di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia sono le parole ambigue su Donald Trump e l’assalto al parlamento americano del 6 gennaio 2021, assai più che quelle su Benito Mussolini e la marcia su Roma del 1922. È l’ammirazione e l’amicizia per gli autocrati ungheresi e polacchi di oggi, che dopo essere stati eletti hanno tentato di imprimere, spesso con successo, una torsione autoritaria e illiberale alle loro democrazie. Ma questo è un problema che riguarda la stretta attualità, un ambito cui la politica italiana si conferma ancora una volta perfettamente impermeabile.