Pd Partito dimissionario

Potrà anche suscitare qualche legittima perplessità l’idea di un segretario che all’indomani di una pesante sconfitta elettorale annuncia l’intenzione di dimettersi, per poi spiegare che lo farà soltanto al successivo congresso, per poi spiegare che il successivo congresso si terrà in una data imprecisata ma comunque non prima di cinque o sei mesi, per poi spiegare che comunque non potrà essere un semplice congresso ma una vera e propria rifondazione, per poi spiegare pure come intende portarla avanti, tale rifondazione, con una lettera aperta a tutti i militanti.

Potrà suscitare altrettante perplessità il fatto che, accantonata in tal modo la questione del risultato elettorale e delle conseguenze da trarne, il presunto dimissionario abbia ripreso come se niente fosse a parlare e a decidere a nome del partito, su questioni dirimenti e decisive, come la questione della guerra e della pace, il rapporto con la maggioranza di governo e con le altre forze di opposizione, prendendo tra l’altro solenni impegni per il futuro, come la singolare promessa di non accettare per nessun motivo soluzioni alternative alle elezioni anticipate in caso di crisi di governo.

Detto peraltro dagli stessi che hanno difeso fino all’ultimo e tuttora difendono, giustamente, la scelta di appoggiare Mario Draghi, in una specie di lettura alla David Foster Wallace del governo di unità nazionale: una cosa giustissima che non farò mai più.

Tutto questo potrà suscitare perplessità o anche sconcerto. A ben vedere, però, non è di Enrico Letta, il sedicente dimissionario, che bisogna stupirsi, ma di coloro che vorrebbero prenderne il posto. È con loro che bisogna prendersela, e con tutti i dirigenti del Partito democratico che assistono impassibili a una tale messa in scena, come se non sapessero che di qui alla prossima primavera il rischio è che non ci sia più nessun partito da portare a congresso, rifondare o rigenerare.

Letta conferma la linea sul conflitto in Ucraina, aderendo al sit-in davanti all’ambasciata russa, anche se per la stessa giornata aveva già promosso un sit-in davanti all’ambasciata iraniana: due iniziative, entrambe sacrosante, che forse avrebbero meritato dal Pd un sostegno meno estemporaneo, più meditato e meglio organizzato. Ma tralasciamo pure questo aspetto.

Il punto è che sulla questione della guerra è già cominciata la campagna per cambiare la posizione e la stessa natura del Partito democratico, dall’interno e dall’esterno, attraverso appelli come quello promosso da Rosy Bindi e vari intellettuali di area, attraverso iniziative come l’assemblea organizzata da Stefano Fassina e altri esponenti della sinistra radicale ed ecologista con Giuseppe Conte, attraverso l’agitazione di un gran numero di personalità del centrosinistra e dello stesso Partito democratico, per non parlare di Articolo Uno, intenzionate a fare della mobilitazione pacifista il terreno su cui costruire una nuova sinistra populista, presumibilmente guidata da Conte.

Lasciare che tutto questo prosegua quasi per inerzia, senza che nemmeno se ne discuta apertamente, significa rassegnarsi, più che allo scioglimento, all’evaporazione del Pd (e significa pure, tra parentesi, fare un immenso favore a Carlo Calenda e a Matteo Renzi, che del resto ormai sarà abituato a essere continuamente beneficato proprio da chi più di ogni altra cosa vorrebbe soltanto fargli dispetto).

D’altra parte, se a tutt’oggi non c’è neanche uno tra gli aspiranti candidati al congresso del partito che sia capace di prendere una posizione netta contro questa deriva e imporre una discussione vera, adesso, subito, non tra sei mesi, non c’è motivo di svegliarli. Quando usciranno dal letargo, in primavera, forse si renderanno conto che non era solo il segretario a essere dimissionario, ma l’intero partito.