Bollette/ Stagnaro spiega perchè conviene seguire Gentiloni

Tutti gli stati membri dell’Unione europea hanno impegnato una fetta consistente del rispettivo bilancio per frenare l’aumento delle bollette. A oggi, l’Italia ha già speso o impegnato 60 miliardi di euro, pari a 3,3 punti di pil: più di noi hanno fatto solo Grecia e Croazia. La stessa Germania finora si era dimostrata relativamente accorta, avendo mobilitato circa il 2,8 per cento del pil. Adesso, il bazooka da 200 miliardi (5 per cento del pil) sembra scombinare i giochi e segnare un sorpasso pericoloso da parte di Berlino, all’insegna dell’ognuno per sé.

Tutti i governi europei – incluso quello italiano – hanno battuto finora tre strade parallele: la ricerca di nuovi approvvigionamenti di gas per sostituire quello russo; l’utilizzo della spesa pubblica per schermare i consumatori dai prezzi record; e l’adozione di misure più o meno strutturali per prevenire un impatto distruttivo sull’economia. Questa marcia disordinata ha prodotto un proliferare di misure nazionali, da cui sono scaturite anche tensioni tra gli stati membri e tra essi e la Commissione europea. Contemporaneamente, si fatica a vedere un disegno comune per affrontare un problema che ha una dimensione evidentemente europea, pur con impatti molto diversi tra i vari paesi. La principale proposta della Commissione, quella di una riduzione coordinata dei consumi con un target del 15 per cento, è stata rapidamente svuotata e annacquata. Le idee degli stati membri – tra cui il price cap italiano – sono cadute nel gioco dei veti incrociati. Sicché ognuno ha fatto per sé, mettendo a disposizione risorse ingenti per mitigare gli aumenti. Questo precario equilibrio si è rotto definitivamente giovedì 29 settembre, quando – alla vigilia di un Consiglio straordinario sull’energia – Berlino ha annunciato un maxi-pacchetto da 200 miliardi di euro per creare uno “scudo” contro il caro-bollette.

Il rischio di una frammentazione distruttiva è evidente.
Fortunatamente, non tutto è perduto e forse alcune reazioni sono state esagerate. Non solo la composizione della manovra tedesca è meno controversa e dirompente di come inizialmente sembrava, anche perché lo stanziamento copre spese in parte già sostenute e comunque si estende sul biennio 2023-24. Più importante, proprio la discussione che ne è scaturita ha posto le premesse per aprire un nuovo capitolo nel negoziato europeo.

La strada l’hanno indicata i commissari Paolo Gentiloni e Thierry Breton, in un intervento a doppia firma su vari giornali europei: “Per superare le falle causate dai diversi margini di manovra dei bilanci nazionali, dobbiamo pensare a strumenti mutualizzati a livello europeo”.

Il price cap
Mesi di ostinato lavoro hanno consentito al governo italiano di coagulare attorno alla proposta del price cap quindici stati membri, tra cui la Francia. Nei fatti, però, l’unità è solo apparente perché ciascuno di essi interpreta in modo differente la proposta. Il ministro Roberto Cingolani si è assunto l’incarico di arrivare a una proposta unitaria, che alla fine ha raccolto l’appoggio di Grecia, Polonia e Belgio.

La proposta è ben congegnata e intellettualmente elegante, ma ha alcuni punti deboli. Il primo sono le complessità amministrative. La seconda questione riguarda la difficoltà pratica ad applicare il cap a migliaia di scambi bilaterali. Ma il problema più grosso è di altro tipo. L’economia è come un sistema di vasi comunicanti: se si mette un tappo in punto, bisogna poi mettere infiniti tappi in altri punti, e il rischio è di perdere completamente il controllo del sistema e scoprire che il punto di arrivo è persino peggiore di quello di partenza. La seconda versione del piano, quella del corridoio, aggiunge complessità anziché ridurle, ipotizzando tra l’altro diverse procedure a seconda che l’offerta sia sufficiente, limitata o insufficiente a soddisfare la domanda.

Come insegna la storia – da Diocleziano in poi – un tetto ai prezzi si trascina sempre appresso un serio rischio di riduzione dell’offerta, perché azzoppa l’incentivo economico a portare il bene da dove è relativamente più abbondante a dove ce n’è maggior bisogno. Quindi, non si può ragionare di price cap senza contemporaneamente predisporre un piano duro di razionamento, specialmente in un contesto in cui l’inadeguatezza dei volumi disponibili è una eventualità concreta anche sotto scenari relativamente ottimistici.

La scelta è brutalmente questa: da un lato lasciar funzionare i mercati e accettare prezzi potenzialmente più alti, in modo tale che siano questi a guidare le riduzioni della domanda. Dall’altro, porre un tetto ai prezzi e spostare dall’economia alla politica la decisione su come ripartire i razionamenti. Il prezzo di un price cap, per così dire, è il lockdown energetico. E se, invece di partire dai prezzi, partissimo dalle quantità e cercassimo di agire su queste, per spingere quelli al ribasso?

Il calo dei consumi delle imprese corrisponde a una simmetrica riduzione della produzione industriale, primo segnale di una recessione potenzialmente alle porte. Si tratta, probabilmente, di un male necessario, ma va affrontato con ragionevolezza: da un lato evitando – dove possibile – che i rallentamenti produttivi si trasformino da temporanei a permanenti (cioè da fermi provvisori a chiusure definitive); dall’altro intervenendo per prevenire disparità eccessive a livello europeo, che potrebbero alterare il panorama competitivo. Su questo torneremo più avanti.

La riduzione della domanda è una strettoia ineludibile nei prossimi mesi.

La riduzione della domanda è l’unica leva disponibile nell’immediato. Avrebbe dovuto essere azionata fin dall’inizio dell’estate, per favorire il riempimento degli stoccaggi e ridurre la tensione sui prezzi. Non avendolo fatto ieri, è essenziale farlo oggi. Ciò significa, anzitutto, informare e sensibilizzare i consumatori, aiutandoli a comprendere che anche piccoli risparmi possono avere effetti importanti sui corsi del gas. E spiegando loro come fare, senza soverchi sacrifici, a tenere sotto controllo i consumi.

Il grosso dello sforzo, però, ricadrà inevitabilmente sulle imprese, che pertanto vanno ingaggiate con un duplice obiettivo: ridurre i volumi domandati e, all’occorrenza, tagliare il consumo con scarso preavviso per contribuire a superare i picchi di domanda in assenza di offerta commisurata. A tal fine è necessario elaborare (e condividere) un piano di intervento rapido. Ma è ancora più importante seguire un suggerimento della Commissione europea, che pare finora caduto nel vuoto: cioè creare incentivi economici al risparmio di energia, che possono riguardare soprattutto le grandi imprese.

Lo strappo tedesco
Si è tanto polemizzato sui 200 miliardi annunciati da Scholz (il 5 per cento del pil) per il prossimo biennio. Non è stato altrettanto sottolineato che, finora, la Germania ha speso “solo” il 2,8 per cento del pil, mentre l’Italia ha già messo sul piatto il 3,3 per cento e, se le misure in scadenza saranno prorogate fino a fine anno, supererà agevolmente il 3,5 per cento.

Il maxi-piano tedesco poggia su due pilastri: il supporto finanziario alle famiglie (e, forse, alle imprese) e un fondo di emergenza a sostegno della liquidità dei venditori e trader di elettricità e gas. L’uno assume la forma di un “freno” ai prezzi: in pratica, lo stato sussidia il consumo fino a una certa soglia (circa l’80 per cento della domanda di una famiglia “frugale”), pagando la differenza tra un prezzo ritenuto congruo e il costo di mercato di luce e gas. Oltre quella soglia, i consumatori dovranno farsi carico del costo pieno dei prodotti energetici. L’intuizione di base consiste nel fatto che, in tal modo, si fornisce effettivo sollievo alle finanze domestiche, senza tuttavia rimuovere l’incentivo implicito al risparmio: infatti, chi molto consuma, moltissimo pagherà.

L’altro elemento della strategia tedesca è un fondo per supportare la liquidità e, in casi estremi, provvedere al salvataggio delle imprese di vendita. L’intervento più importante, a dire il vero, è già stato varato poche settimane fa, con la nazionalizzazione temporanea di Uniper, il maggior importatore tedesco di gas che serve circa il 40 per cento delle famiglie. Garantire la liquidità delle imprese di vendita della luce e del gas è necessario per evitare che esse finiscano strangolate dagli oneri finanziari che devono sostenere per coprirsi contro la volatilità dei prezzi (le cosiddette marginazioni). Se non lo facessero, esporrebbero sé stesse e i propri clienti a rischi enormi. Inoltre, le incertezze finanziarie spingono i venditori a un eccesso di cautela, sicché molte imprese consumatrici, specie di medio-grandi dimensioni, faticano a trovare un fornitore per coprire i propri consumi attesi. In Italia, anziché riconoscere tale condizione drammatica, abbiamo scambiato gli operatori del mercato dell’energia per galline dalle uova d’oro, imponendo misure come l’obbligo di rateizzazione, il divieto di adeguare i contratti di vendita all’andamento dei mercati e, naturalmente, la tassa sugli extraprofitti. Insomma: anziché essere parte della soluzione, la politica economica del governo è stata (ed è) parte del problema.

A ogni modo, misure di supporto focalizzato a famiglie e imprese sarebbero meno dispersive e più efficaci, pur nella consapevolezza che lo spazio di bilancio è quello che è. Per l’Italia non è possibile correre alla stessa velocità di un paese, come la Germania, che ha un bilancio sano e pertanto maggiore spazio fiscale. (Anche questa è una lezione che la politica italiana prima o poi dovrebbe apprendere). È dunque vero che la diversa potenza di fuoco rischia di generare condizioni molto diverse tra le imprese italiane e tedesche, e di generare distorsioni potenzialmente significative tra quelle che competono le une con le altre. Come hanno scritto Simone Tagliapietra, Jeromin Zettelmeyer e Georg Zachmann, “il rischio principale del pacchetto consiste nel suo potenziale di sconvolgere il mercato interno europeo. In assenza di una risposta fiscale europea comune, i governi che dispongono di un maggiore spazio fiscale saranno inevitabilmente in grado di gestire meglio una crisi… Se il freno al prezzo del gas in Germania fa sì che le imprese tedesche abbiano maggiori possibilità di sopravvivere alla pandemia rispetto, ad esempio, a quelle italiane, ciò aggraverebbe ulteriormente le divergenze economiche nell’Ue e minaccerebbe l’unità europea nei confronti della Russia” (La Stampa, 3 ottobre 2022)  (…)

E lo stesso problema dovrebbero porselo tutti quelli che avanzano immaginifici progetti di “disaccoppiamento dell’energia elettrica dal gas”, come andava di moda dire in campagna elettorale. Se c’è una misura che rischia di produrre danni di breve e lungo termine, è proprio la distruzione del funzionamento dei mercati elettrici nel nome di un beneficio effimero nell’immediato con, in più, la conseguenza inintenzionale di causare uno svantaggio competitivo alle imprese italiane.
Ecco allora che torniamo al punto di partenza: i nuovi ministri della Transizione ecologica e dello Sviluppo economico, e la futura premier, dovranno sbrogliare una matassa che è sommamente ingarbugliata. Ma possono cominciare tirando il lembo che gli viene porto da Gentiloni e Breton: provare a costruire un fronte comune con altri paesi per introdurre elementi di mutualizzazione degli sforzi, sulla scorta del Sure utilizzato con successo durante la pandemia