Ascesa, caduta e possibile rifondazione minoritaria del Partito democratico

Walter Veltroni aveva fondato il Pd con il progetto ambizioso di costruire un partito a vocazione maggioritaria, una casa dove potessero convivere le principali famiglie politiche del nostro paese, quella post comunista, quella cattolica progressista e quella socialista.

Con tutte le sue ruvidità, ma anche con i suoi colpi di genio, Matteo Renzi è stato l’unico dei successori di Veltroni a continuare su quella scia, ad allargare cioè la platea degli elettori del Partito democratico fino ad arrivare a uno strabiliante quaranta per cento dei consensi alle Europee del 2014 e a provare a cambiare la Costituzione d’accordo con gli avversari e con il famoso patto del Nazareno poi finito a schifìo.

Tutti gli altri leader del Pd si sono limitati, più o meno brillantemente, a governare l’esistente e a non interrompere il flusso di personale politico che il Pd ha garantito a diversi governi repubblicani.

Il Pd è stato il pilastro su cui si è retta la democrazia italiana negli ultimi vent’anni, e per questo va ringraziato e onorato, ma questa fondamentale funzione di servizio pubblico e di somministrazione di personale politico presentabile alle istituzioni dello Stato si è presto trasformata in una battaglia miserabile tra consorterie guidate da mezze figure interessate soltanto a eliminare i corpi estranei da una famigerata “ditta” autoproclamatasi, con la stessa credibilità delle repubbliche farlocche del Donbas, proprietaria unica del Partito democratico.

Ovvio che i consensi si siano dimezzati se chiunque in questi anni abbia cercato di provare a convincere gli elettori che non votano Pd a votare per il Pd è stato trattato come un pericoloso criminale e un indegno usurpatore, nonostante l’obiettivo di un partito politico che si candida alle elezioni – ma guarda che stranezza – sia esattamente quello di sottrarre voti all’avversario in modo da ottenere più voti, vincere e poi governare.

La ditta Pd invece ha preferito rinchiudersi e respingere gli elettori altrui. Una strategia identitaria stravagante, specie se accompagnata dall’incoronazione, come leader fortissimo di tutti i progressisti, di un bellimbusto non madrelingua, scovato per caso da un’agenzia di web marketing milanese per fare da segnaposto a Palazzo Chigi di un governo più a destra di Gengis Khan e ora, per capitomboli successivi, diventato capo di un partito populista e putiniano che prima accusava il Pd di usare l’elettroshock per rubare i bambini e di ogni altro crimine mafioso possibile e ora si appresta a superarlo nei consensi mostrando apertamente disprezzo per i suoi dirigenti.

Il Pd non è più da anni il partito del lavoro e della classe operaia e adesso nemmeno più delle grandi città cosmopolite. Si presenta agli elettori minacciando di aumentare le tasse e si impegna a garantire diritti molto apprezzati su Twitter, Instagram e nei college americani, meno nei mitologici territori, salvo poi non fare niente di niente, solo hashtag sui social, e semmai definire di destra quei suoi ex dirigenti che hanno conquistato le unioni civili, la legge Dopo di noi, l’aumento di stipendio – 80 euro netti al mese – ai lavoratori a reddito basso, la regolarizzazione di un milione di precari della scuola pubblica, gli incentivi alle assunzioni e le prime protezioni sociali per i precari, ovvero a screditare gli autori del corpo legislativo più di sinistra dai tempi dello statuto dei lavoratori e della stagione dei diritti civili.

Piu che altro è una questione psicanalitica infantile, prima ancora che ideologica o di potere, ma il risultato finale è che un partito nato per interpretare una vocazione maggioritaria si è inesorabilmente trasformato in una ridotta di combattenti e reduci dediti ad attirare like assumendo la posa caricaturale del progressista dei vecchi tempi.

E così ieri un sondaggio Swg dava al Pd già un punto in meno rispetto al 19,1 di dieci giorni fa, con i Cinquestelle più avanti di oltre un punto rispetto al 25 settembre e Calenda e Renzi su al 9,1 per cento.

Il Partito democratico adesso dovrà scegliere che cosa fare da grande: se tornare alle origini della vocazione maggioritaria e con una visione riformatrice del paese oppure se lasciare quell’eredità a Renzi e Calenda e sciogliersi definitivamente in una specie di Rifondazione minoritaria subordinata ai Cinquestelle, un esito inevitabile se dovesse affidarsi alla politica identitaria di Elly Schlein o alle mani sicure di Peppe Provenzano, di Michele Emiliano o di Andrea Orlando che, incredibile a dirsi, è stato il portavoce del Pd a vocazione maggioritaria di Veltroni, mentre ora guida la corrente di quelli inconsapevolmente impegnati a staccare la corrente.