Energia: serve più Europa (anche) sulla crisi del gas

(Lucrezia Reichlin) Le elezioni si svolgono nel contesto di una crisi economica annunciata e dalle caratteristiche nuove perché intreccia i rischi legati alla sicurezza energetica, con rischi climatici e rischi economici e finanziari. La gravità di questi rischi è legata in gran parte alla dinamica della guerra in Ucraina. Se dovesse prolungarsi, come sembra probabile, l’Italia, come gli altri Paesi Ue dovrà far fronte ad un perdurare dell’aumento del prezzo del gas e a un aumento della volatilità dei prezzi dell’energia.

In questo scenario, la stretta monetaria in corso poco potrà fare per calmare l’inflazione a meno di non creare un tale calo di Pil e occupazione da indurre una diminuzione dei prezzi non energetici di oltre il 20%. Questo è un quadro in cui i governi della Ue si troveranno costretti a prolungare le misure per alleviare i costi energetici di famiglie e imprese, misure da finanziare o con nuove tasse o con nuovo debito. Ma il problema più complesso da affrontare sarà quello di conciliare misure emergenziali senza rinunciare agli obbiettivi di contenimento del riscaldamento climatico e anzi rafforzando e chiarendo la strategia per raggiungerli.

La transizione energetica verso emissioni nette zero è oggi ancora più urgente perché è la chiave per la sicurezza energetica dell’Europa. Un ritorno all’energia fossile non ci garantisce l’indipendenza nel medio e lungo periodo.

La discussione su quali siano le misure di breve periodo è complessa e non è questo il luogo per affrontarla nei dettagli, ma il principio generale dovrebbe essere chiaro e lo ha formulato il Fondo monetario internazionale: è sbagliato introdurre misure che non disincentivino il consumo di energia fossile, meglio compensare chi sopporta il maggiore peso economico dei costi energetici con trasferimenti mirati. È inoltre cruciale che il disegno di queste misure e il loro finanziamento non disincentivino l’investimento nelle tecnologie rinnovabili. In questo senso, nel considerare possibili cambiamenti nel sistema europeo di determinazione del prezzo dell’elettricità o tasse sugli extra-profitti delle società energetiche, bisogna avere in mente che i meccanismi di mercato che ne conseguono devono essere compatibili con questo obbiettivo.

Questa strada è percorribile solo con una strategia europea. Il nazionalismo energetico non funziona in un mercato globale. L’agire comune ha senso sia ai fini di una più efficace gestione della crisi — razionamento, procurement, price cap, finanziamento di politiche emergenziali — ma ha anche una motivazione industriale e politica. Quella industriale deriva dalle economie di scala dell’industria energetica (la dimensione conta). Quella politica dal fatto che la nostra dipendenza dal resto del mondo non si esaurirà, con la fine della dipendenza dalla Russia. La sicurezza energetica dell’Europa dipende dal peso geopolitico che essa saprà esercitare in un continente che, nonostante in termini economici conti quasi come gli Stati Uniti, ha poca voce perché politicamente frammentato.

Sicurezza energetica, strategia su produzione e consumo di rinnovabili, politica europea sono indissolubilmente legate. Il problema non è solo affrontare i prossimi sei mesi — che saranno durissimi — ma affrontare i prossimi decenni.

Con la crisi finanziaria e poi con la pandemia è risultato evidente che la condizione per superare la crisi fosse quella di introdurre nuovi strumenti di politica economica che facilitassero la condivisione del rischio tra Paesi. La Ue è arrivata in ritardo ai tempi della crisi finanziaria, ma ha agito tempestivamente per far fronte al Covid. In particolare, per la prima volta — anche se in modo temporaneo — ha emesso debito comune per finanziare trasferimenti ai Paesi più colpiti. È chiaro che una misura del genere ha richiesto un grande scatto di fiducia tra partner e lo sviluppo di un framework in cui i Paesi e le autorità federali possano interloquire sugli obbiettivi degli investimenti e monitorare l’efficacia dell’uso del denaro messo sul piatto con la garanzia dei contribuenti di tutti i paesi dell’Unione.

Oggi, con la crisi energetica e l’emergenza clima, la Ue deve trovare la forza politica di fare qualcosa di analogo, ma su un terreno più complesso che comporta l’elaborazione di una linea condivisa su come raggiungere la sicurezza energetica, di come porsi nella intricata situazione politica internazionale e anche la messa in comune di risorse finanziarie e militari. Questo percorso non è facile. Richiede l’impegno dei Paesi più grandi, inclusa l’Italia, e una capacità di combinare politica nazionale e Europea oltre al necessario coinvolgimento della società civile.

È un percorso che richiederà cessione di sovranità su temi importanti, ma che in principio non annulla la voce dei singoli Paesi. In altre parole, la chiave per affrontare la crisi è ancora una volta «più Europa».

Ma questo non è un percorso condiviso dalla coalizione che — a stare ai sondaggi — è destinata a governare l’Italia nei prossimi anni, coalizione che vede i suoi due partiti principali aderire a una visione più minimalista delle competenze Europee, che aspira a limitarle, non ad ampliarle.

Questa visione è certamente legittima, ma comporta dei costi. Infatti, essa implica disfare il lavoro degli ultimi 15 anni e ritornare ad una interpretazione più restrittiva del principio di sussidiarietà del trattato di Maastricht. Significa sí confrontarsi con i partner dell’Unione, ma evitare vincoli a decisioni nazionali o il potenziamento di strumenti di intervento che siano gestiti a livello federale. Si può discutere se questa impostazione sia adeguata ai problemi di oggi, ma non è giusto demonizzarla. Va però chiarito che non si può chiedere l’eurobond, il price cap europeo sul gas, solidarietà o lo scudo della Bce — cioè misure che implicano «più Europa» — ed allo stesso tempo respingere regole comuni, competenze condivise, «check and balance». Prima o poi l’elastico si rompe.

Nel lungo percorso della costruzione europea, la visione minimalista dell’Unione è stata trainata dalla Gran Bretagna. Le crisi degli ultimi quindici anni la hanno indebolita perché hanno dimostrato che per fronteggiarle era necessario ampliare gli strumenti comuni. La Gran Bretagna alla fine ha scelto la Brexit. I partiti europei che la condividono e che hanno scelto di stare nell’unione, però, restano molti. Si vedrà se l’Europa che auspicano sarà in grado di guidarci in questa crisi e oltre, ma è bene sapere che questo avrà forse dei vantaggi, ma sicuramente anche dei costi.