I Paesi Bassi impediscono all’Ue di risolvere la crisi energetica

È sconcertante l’assenza di intervento dell’Europa a fronte della crisi innescata dall’aumento vertiginoso del prezzo del metano che ormai è del 1.500% rispetto a due anni fa. Le notizie degli ultimi giorni, lette una accanto all’altra, indicano un inarrestabile cammino verso una crisi epocale che coinvolge tutti i paesi europei, tranne Paesi Bassi e Svezia.

Il metano corre imperterrito verso i 300 euro al MWH, così l’inflazione che si avvicina sempre più al 10% tanto che Fabio Panetta, del board della Banca centrale europea, stima ormai che «le possibilità di recessione stanno aumentando nella zona Euro» e avverte che la crisi non può essere combattuta con la politica monetaria della stessa Bce, l’Euro in discesa perde addirittura la parità col dollaro.

Ma, a fronte di questo scenario l’Europa tace, non fa nulla. Non ha un piano, è in vacanza. Sorda agli allarmi per un autunno di tensioni sociali in tutti i paesi e alla prospettiva concreta di perdita di un milione e più di posti di lavoro nel continente a causa della crisi o della chiusura delle industrie energivore. La scelta comunitaria evidente è che ogni paese si arrangi da solo.

Mario Draghi nel Consiglio Europeo di maggio e quello di fine giugno ha combattuto, con l’aiuto di Emmanuel Macron, affinché venisse adottata la prima e più urgente misura di contrasto: il price cap, un accordo di cartello tra tutti i paesi europei acquirenti di metano per imporre un tetto massimo che stabilizzi, in discesa, il mercato energetico. Ma non è stato ascoltato.

Paesi Bassi in testa, tutti gli Stati Ue rigoristi, che guarda caso sono quasi autosufficienti dal punto di vista energetico, si sono opposti e la bassissima mediazione è stata di riparlarne il 20 e 21 ottobre. Ma allora sarà ormai troppo tardi per affrontare la tempesta energetica perfetta dell’autunno e ancor più dell’inverno.

Indicativa la motivazione alta del rifiuto del price cap, presentata dai Paesi Bassi: non si deve creare in Europa un precedente di regolamentazione forzata del mercato che violi la libera contrattazione. Esattamente come per le astruse regole del 3% di deficit e del 60% del debito la teoria iper liberista dei rigoristi nasconde una realtà ben più prosaica: questi paesi sono tra i più sovranisti tra i sovranisti, si rifiutano di guardare al complesso dei paesi dell’Unione e difendono cinicamente i propri interessi economici e la propria autosufficienza energetica.

In più, i Paesi Bassi difendono i lauti proventi e la posizione di potere che le vengono dal controllo monopolista ad Amsterdam il Dutch Title Transfert Facility Natural Gas, l’unica borsa europea del metano. A questa rigidità olandese si è sommata poi la cecità strategica della leadership del cancelliere tedesco Olaf Scholz che si è unito nei Consigli Europei agli oppositori del price cap per una ragione di nuovo sovranista: i contratti pluriennali stipulati a suo tempo con Gazprom sono in larga parte a prezzo bloccato, non indicizzato con i futures di Amsterdam.

Calcolo miope, subito vanificato dalla stessa Gazprom che ha drasticamente abbassato le forniture di metano alla Germania – ora le blocca a fine mese addirittura per tre giorni – obbligando il governo tedesco a cercare altri fornitori a prezzo pieno, col di più che il paese non ha neanche un rigassificatore. Di conseguenza, Berlino ha diminuito le forniture previste e concordate all’Austria e agli altri paesi che dipendono dal flusso di metano che passa per North Stream 1.

In questo contesto non stupisce che la pressione dell’opinione pubblica tedesca per diminuire le sanzioni contro la Russia aprendo North Stream 2, la cui chiusura è stata la prima sanzione contro Mosca nel febbraio scorso, sia tale che se ne è fatto interprete addirittura uno dei più alti esponenti della Fdp Wolfgang Kubicki. Il dibattito sulla diminuzione delle sanzioni contro Mosca è entrato ufficialmente nel circuito politico del governo tedesco. Inutile dire che questa sarebbe una eccellente vittoria politica per Vladimir Putin.