Se, tra gli elettori democratici, il 78 per cento si dice disposto ad accettare benzina più cara per aiutare l’Ucraina, tra gli elettori repubblicani lo è solo il 44 per cento. Boris Johnson è fuori gioco. Macron non ha più una maggioranza all’Assemblée Nationale. Dio solo sa quale governo ci sarà in Italia nei prossimi mesi. Ragioni e dinamiche sono diversi. Ma in tutti i casi le opinioni pubbliche sono assai più preoccupate dell’inflazione, dell’aumento del costo della vita, del gas e della benzina, di una possibile recessione, che delle sorti dell’Ucraina. E’ evidente che Putin ha puntato tutto su questo, un cambio di regime in occidente prima che facciano fuori lui in Russia.
Fatti nostri? Secondo i sondaggi molti connazionali pensano che non avremmo dovuto aiutare l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. L’insieme degli italiani che la pensano così può essere rappresentato come una torta a due strati. C’è lo strato superiore, il più sottile, composto dai politicizzati: pacifisti più o meno finti, putiniani di diverse gradazioni, tutti, comunque, antiamericani. C’è poi lo strato inferiore, molto più ampio, composto da coloro che pensano che la nostra partecipazione allo sforzo occidentale li danneggi personalmente: le bollette che salgono, l’inflazione. Pensano: «Chi ce lo ha fatto fare? Siamo danneggiati dalle sanzioni che i governi occidentali hanno imposto alla Russia. Dovremmo smetterla, e tanto peggio per l’Ucraina».
Poiché le persone hanno il diritto di non conoscere le complesse alchimie della politica internazionale, e normalmente, infatti, ne sanno poco o nulla, nelle democrazie, ove non si governa senza il consenso dell’opinione pubblica, toccherebbe a chi se ne deve occupare per professione (classe politica, addetti alla comunicazione, esperti ma anche intellettuali con un qualche seguito presso l’opinione pubblica) trasmettere a quelle persone le informazioni necessarie per orientarsi e giudicare. Spetterebbe a costoro spiegare al grande pubblico che le cose che accadono in Ucraina sono, eccome, fatti nostri: a seconda di come finirà la guerra, la vita di tutti noi ne sarà potentemente influenzata. Ma nel nostro Paese (non solo nel nostro ma nel nostro più che in altri) i suddetti professionisti sono divisi. E, si badi, non sono divisi, come sarebbe naturale, solo da opinioni differenti sulle strategie migliori per contrastare l’imperialismo russo. Sono divisi dal fatto che l’imperialismo russo per alcuni è una minaccia anche per noi e per altri non lo è affatto.
Da qui i messaggi contradditori all’opinione pubblica. Poiché tra quelli che comunicano al pubblico non c’è nemmeno un accordo minimo sulla esistenza di una minaccia incombente, è inevitabile che l’opinione pubblica sia disorientata, non colga l’importanza della posta in gioco, e una parte di essa finisca per pensare che ci siamo immischiati in cose che non ci riguardano.
È difficile in queste condizioni fare arrivare a tutti il messaggio secondo cui in un mondo così interdipendente esistono pochi fatti che non siano fatti nostri. Figurarsi se non ne fa parte una guerra in Europa. Come spiegare, in queste condizioni, che l’invasione russa ha mandato in pezzi il sistema di sicurezza europeo e che se c’è una possibilità di impedire che prima o poi scoppi la terza guerra mondiale, è appesa oggi alla nostra capacità di aiutare gli ucraini a fermare i russi, di fare in modo che per Putin i costi della sua azione diventino così proibitivi da costringerlo ad abbandonare il progetto di ricostituzione dell’antico impero?
Come spiegare che gli ucraini, con la loro resistenza, forse ci hanno salvati? Se Putin si fosse preso l’Ucraina non si sarebbe fermato (è da anni che lo va dicendo). Dopo sarebbe toccato alla Moldavia e sarebbero stati messi sotto pressione baltici e Polonia, ossia Paesi Nato. Come sarebbe stato allora possibile evitare una guerra generale e lo scontro fra potenze nucleari? Sì, proprio fatti nostri.
Se ci sono persone che credono che una guerra nel cuore dell’Europa non le riguardi, cosa penserebbero se domani il confronto militare si spostasse dall’altra parte del globo, se fra qualche tempo la Cina decidesse di invadere Taiwan? Se non si sentono coinvolti in una guerra in Europa a maggior ragione non si sentirebbero coinvolti se scoppiasse un conflitto armato fra Cina e Stati Uniti. Ma persino questa eventualità ci riguarderebbe. Perché una concentrazione massiccia dell’apparato bellico americano nel mar della Cina lascerebbe senza protezione l’Europa. Un’Europa ricca e disarmata. Come era l’Italia nella prima metà del Cinquecento quando venne devastata dalla lotta fra grandi potenze per il controllo della penisola. La Federazione russa, di fronte a una così ghiotta occasione, quasi certamente si muoverebbe. Tenterebbe di fare quanto oggi gli ucraini e il sostegno occidentale alla loro resistenza le impediscono di fare.
Oppure si guardi a Medio Oriente e Africa. Da lì arrivano due minacce. La penetrazione cinese e russa e la crescita dell’islamismo radicale. La Cina per molto tempo ha ampliato la sua influenza in Africa con mezzi economici. Ma da alcuni anni è anche militarmente presente. I russi, per parte loro, già insediati in Siria e in Libia, sono subentrati agli europei, con i loro mercenari, anche nel Sahel. Dispongono dei rubinetti che possono aprire quando vogliono per inondare l’Europa con grandi flussi di migranti al fine di destabilizzarne le democrazie. E la loro presenza militare è ormai una spina nel fianco Sud della Nato. Per arginare russi e cinesi la Nato deve necessariamente trattare con il più infido dei propri membri: l’amico/avversario Erdogan di Turchia.
Ma oltre alla sfida strategica di Cina e Russia, dall’Africa arrivano altre minacce. Il tentativo europeo (Francia coadiuvata dall’Italia e da altri Paesi) di arginare in Mali la marea montante dell’estremismo islamico è fallito. Un giorno la Nato, con l’Europa in prima linea, dovrà investire risorse (che implicano sacrifici per i cittadini) per contenere la minaccia. Prima che colpisca l’Europa. Ancora una volta, fatti nostri.
Le divisioni nell’opinione pubblica sulla guerra in corso riflettono quelle entro le élite. C’è anche nel nostro Paese, come in tutto il mondo occidentale, la tendenza di una parte consistente degli intellettuali a considerare l’Occidente di cui fanno parte il vero nemico, a ritenerlo la causa di tutti i mali (aggressione russa in Ucraina compresa). Ma ci sono anche le specificità italiane. Vorrà pur dir qualcosa quella percentuale che, secondo i sondaggi, sfiora il trenta per cento di italiani «sensibili» alle ragioni di Putin. Le democrazie, fra le altre cose, si distinguono per spirito comunitario, per la maggiore o minore forza del senso di appartenenza a una comunità. Empiricamente, quella forza si rivela in presenza di gravi sfide. Se lo spirito comunitario è forte, di fronte a una minaccia incombente, le élite tendono a fare fronte unico trascinandosi dietro l’opinione pubblica quasi per intero. Non è il nostro caso.