Giuseppe Conte, un uomo sospeso

(da Repubblica) C’è un confine oltre il quale la politica rischia di scadere nel wrestling, quei combattimenti mascherati e simulati ai quali crede solo la parte più ingenua del pubblico, di solito i bambini, ma dove occorre comunque maestria per non farsi male mentre si finge di saltare a piedi pari sul petto dell’avversario. Il wrestling del M5S contro il governo Draghi, esecutivo che al momento i grillini continuano a sostenere, potrebbe rientrare tra i casi nei quali la simulazione si conclude con l’infortunio del wrestler salito sul ring con le intenzioni più bellicose, che in questo caso è facile identificare in Giuseppe Conte.

Le vicende di questi ultimi giorni raccontano che la crisi del Movimento si è avvitata come quei film che non trovano un registro e li provano un po’ tutti, commedia, tragedia, melò, horror, quest’ultimo spesso involontario. Cos’è oggi il Movimento? Che cultura politica vuole interpretare? Quali interessi? L’impressione è che non lo sappia nessuno, Conte in testa.

E la riposta non è facile, anche perché pure gli indizi sono contraddittori: c’è la strenua difesa del reddito di cittadinanza, che al netto degli abusi ha sicuramente aiutato le fasce più deboli della popolazione, e c’è la volontà di immolarsi a difesa del superbonus, cioè una clamorosa forma di redistribuzione di ricchezza verso l’alto. Il M5S non è più una forza anti-sistema come agli esordi eppure coltiva la pulsione del ritorno alle origini, anche perché, quando le sbagli tutte o quasi, alla fine la tentazione è rifugiarsi nel repertorio che un tempo funzionò.

Sta in un’alleanza, quella con il Partito democratico, che ha una connotazione chiara ma ci sta con un disagio palese al punto da chiedere a Enrico Letta e ai media di non chiamare centrosinistra la coalizione della quale fa parte. Insomma, una notte in cui tutte le vacche sono nere e forse non sono nemmeno vacche, una confusione totale anche sul terreno della tattica più spicciola, perché da una parte Conte è chiaramente impegnato in un tentativo di occupazione degli spazi elettorali alla sinistra del Pd, testimoniata anche dal credito illimitato che gli concede l’area bersaniana (anche le mucche nel corridoio non sono più quelle di una volta), dall’altra è capace di performance come prima delle presidenziali francesi quando in tv si rifiutò di scegliere tra Macron e Le Pen.

Perché l’ex premier e parte del M5S sono senz’altro nostalgici dell’epoca nella quale il M5S faceva il pieno di qua e di là, di sopra e di sotto, non solo gli ex voti di Rifondazione comunista ma pure quelli della destra più slabbrata e criptofascista. L’era in cui imperversava il magistero di Alessandro Di Battista, l’anima rossobruna del grillismo, l’uomo capace di trovare un filo tra un contadino honduregno, un putiniano moscovita e un guardiano della rivoluzione iraniano, e il filo era e resta un anticapitalismo da manuale rautiano. Di Battista continua a spingere da fuori perché si torni all’era in cui il grande nemico del Movimento era la sinistra e non a caso si è molto lamentato, con toni sarcastici, della scelta di Conte di non uscire dal governo.

Non può sorprendere che, con queste premesse, la crisi del telefono senza fili, originata dalle parole del sociologo Domenico De Masi sui colloqui (smentiti) tra Draghi e Grillo a proposito della inadeguatezza di Conte, sia diventata un incrocio tra una verifica stile Prima Repubblica, con tanto di papiello di richieste, e un balletto modello Seconda Repubblica, quella delle “fasi due” e, appunto, della politica wrestling, dove tutto si consuma all’inseguimento di un consenso volatile ed effimero, un marketing elettorale da corso a dispense, e più il consenso migra altrove o nel nulla più l’inseguimento si fa frenetico e insensato.

La crisi sfiorata, minacciata, rientrata è dunque ora sospesa, come il caffè nei bar di Napoli, già pagato in attesa che qualcuno se lo beva. Anche il M5S ha già pagato tutto, si tratta solo di capire chi passerà al banco a gustarsi i suoi voti. A naso, non il Pd. Un bel guaio per il nuovo centrosinistra. Ma tanto non si poteva nemmeno chiamarlo così.