I 5Stelle non esistono più ma Letta li vuole nell’Ulivo

(Linkiesta) I Cinquestelle non esistono più.

Il principale partito eversivo di questi nostri tempi impazziti, secondo solo a quello di Donald Trump, è stato quello che ha inquinato il discorso pubblico italiano, che ha diffuso fake news e propaganda di potenze straniere nemiche della società aperta, che ha sostenuto sia Trump sia Xi sia Putin sia Maduro sia i gilet gialli segnando un record mondiale di apparentamenti con dittatori e brutti ceffi.

È stato il partito che ha perseguito la gogna per gli avversari, che ha cancellato i diritti degli imputati, che ha indebolito la democrazia rappresentativa, che ha pregiudicato il nostro futuro energetico, che ha fermato la ripresa industriale, che ha devastato le città e che ha professato il diritto di non fare e di non sapere un cazzo ma a carico dello Stato. Ebbene questo partito di ignoranti e di scappati di casa che quattro anni fa prese il 32 per cento dei voti degli italiani oggi non è più un partito.

Sono rimaste solo macerie: un tizio della provincia di Foggia che a un certo punto ha creduto di essere Napoleone, un vecchio algoritmo da rottamare, un paio di maschere per le sceneggiate di la 7 e del Fatto quotidiano e qualche fessacchiotto che alla fine della legislatura andrà separato dall’umido.

Certo, c’è anche il sedicente statista Di Maio. Il discorso della scissione, durante il quale ha avuto la faccia tosta di spiegare senza alcun imbarazzo che «uno non vale l’altro», è stata una delle pagine più squallide delle politica italiana recente, falsa e infingarda esattamente come quelle che ha contribuito a scrivere in precedenza.

Il ravvedimento operoso di Di Maio è grottesco, ma è ancora più surreale che qualcuno gli dia credito. Un populista vale un populista e il giovane Di Maio, come ha scritto Francesco Cundari, al massimo può fondare un dopolavoro per populisti falliti.

Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno festeggiato la fine dei Cinquestelle, così come tutte le persone serie a cominciare da Mario Draghi.

Col cerino in mano è rimasto il Pd (e anche qualche giornale talvolta, non sempre, liberal democratico) che per un paio di anni si è impegnato pancia a terra a promuovere un’indicibile alleanza strategica con il nulla mischiato a niente, contribuendo alla mutilazione del Parlamento e offrendo a un avvocato di Volturara Appula senz’arte né parte la guida fortissima dello schieramento progressista, e lo ha fatto con una pervicacia talmente insensata da aver cercato in tutti i modi di impedire l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi in nome di «una parola sola e un solo nome per il governo del cambiamento: quello di Giuseppe Conte».

In questa tragicommedia, Enrico Letta ha responsabilità minori rispetto al suo predecessore Nicola Zingaretti e alle vecchie cariatidi del Pci romano, anzi è stato richiamato da Parigi proprio perché i sostenitori di Conte avevano fallito il tentativo di tenerlo a Palazzo Chigi e non erano oggettivamente compatibili con Mario Draghi, la più autorevole personalità italiana nel mondo accusata di essere arrivata al governo «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non ritenevano Conte sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile». In romano si dice: «Malimorté»

Letta ovviamente non è tipo da credere ai complotti internazionali, come ha dimostrato tenendo una solida e sicura linea atlantista sull’Ucraina, però ci ha messo anche un pochino di suo nel continuare a perseguire l’alleanza con Conte, il quale intanto ha tramato con Matteo Salvini sul Quirinale e, adesso, contro Draghi sull’Ucraina.

Ma si sa che al Nazareno la fissazione è peggio della malattia e così è stata gettata al vento l’occasione offerta dal governo Draghi per far crescere una visione alternativa al bipopulismo italiano, probabilmente per evitare di dare ragione a Renzi, a Calenda e ai radicali di Emma Bonino più che per reale convinzione.

Ora che i Cinquestelle non ci sono più e che Conte si è rivelato per quello che è, un populista anti italiano e anti europeo, nessuno chiede a Letta un’abiura alla Bad Godesberg, come fecero nel 1959 i socialdemocratici tedeschi quando rigettarono il marxismo (e come magari dovrebbero rifare adesso per rigettare il puntinismo).

Un congresso del Pd per rinunciare formalmente all’ideologia dell’alleanza strategica con i populisti sarebbe anche un passaggio utile, ma in fondo non è necessario. Qui ci accontentiamo di poco e in particolare che adesso Letta e gli ineffabili Boccia, Orlando e Provenzano ci risparmino lo spettacolo indecoroso di provare a rappacificare i due populisti finalmente senza più popolo.

Con un senso di liberazione lo ha notato Stefano Bonaccini: «Abbiamo inseguito per troppo tempo il Movimento 5 stelle, ma quando tu insegui qualcuno decidendo le tue mosse in base a quello che fa lui, la gente tra l’originale e la fotocopia segue la prima». Ė la pura e semplice verità.

Diciamo dunque che da quando il M5s sta collassando il Pd respira meglio, alza lo sguardo, non subisce più le stramberie antipolitiche e qualunquiste – dalla casuale riduzione del numero dei parlamentari all’ambientalismo del no – e torna persino a essere competitivo, a vincere al Nord, nelle zone popolari (va a finire che il vero partito intimamente Ztl era proprio il contagioso Movimento), non ha più bisogno di chiedere il permesso a Beppe Grillo o a Giuseppe Conte di candidare chi gli pare, non deve più temere scavalcamenti a sinistra sulla pace, non deve più restare nella logica dei bonus a pioggia.

Questo era il campo largo, cerchiamo di essere onesti: un cartello imperniato sull’asse Pd-M5s (e i cuginetti di Articolo Uno). Come tale, venendo meno il partito di Conte, questa idea semplicemente non esiste più.

È una boccata d’ossigeno che – ha ragione il presidente dell’Emilia-Romagna – fa maledire tutto il tempo sprecato a incensare l’avvocato del populismo rivelatosi per quello che è, un mesto politicante: ma ci fosse una parola di Nicola Zingaretti, di Goffredo Bettini, ma anche dello stesso Enrico Letta per dire “scusate, abbiamo sbagliato analisi”, e soprattutto i primi due sapranno che Togliatti diceva «se sbagliate analisi, sbagliate tutto».

Non parliamo poi della sinistra di Andrea Orlando e Peppe Provenzano, lesti a mettere il cappello sulla affermazione di domenica scorsa e ad annunciare una virata sociale della linea del Pd, come se non fossero stati soprattutto loro della sinistra interna a vezzeggiare Conte quasi fosse un nuovo Lenin, a ipotizzare insieme al vecchio Bersani una federazione con i grillini, e altre amenità di questo tipo.

È uno di principali mali della politica italiana tutta, in questo caso della sinistra, quello di non fare mai autocritica nel senso del nobile esercizio dell’onestà intellettuale spesso scambiato per abiura opportunistica: macché, alla scuola tardo-gentiliana della sinistra italiana ogni cosa è figlia naturale di un’altra cosa, tutto è letto in continuità (per fortuna ci sono stati gli Achille Occhetto, i Walter Veltroni, i Matteo Renzi a spezzare questa noiosa catena), al massimo si cambia linea ma senza dirlo.

E in effetti, per tornare a Togliatti, negli anni che abbiamo alle spalle questi dirigenti hanno sbagliato tutto, e la zavorra si sente ancora nei sondaggi che probabilmente sarebbero ancora migliore se per tre anni invece di gingillarsi con i compagni del Movimento avessero fatto politica.

Per fortuna, non loro ma la storia concreta, a partire dalla Politica di Mario Draghi contro l’antipolitica, si è incaricata di sgonfiare il pallone populista e Letta incassa il risultato grazie alla sua pazienza che in lui fa rima con fortuna – non è una critica ma una constatazione – solo che adesso deve rimettere la testa sul suo progetto: ma da questo punto di vista non si registrano novità, per ora siamo all’Ulivo, 22 anni dopo, e al mitico argine contro la destra, con tutti dentro, aspettando l’altrettanto mitico programma (a proposito, perché non mette su una cosa seria, interna-esterna, per redigere un programma fondamentale come nella migliore tradizione dei partiti socialdemocratici europei?).

Diamo tempo al tempo, il Nazareno a quanto pare deve ancora scegliere tra Macron e Mélenchon. Per fortuna dei dem e del suo segretario adesso la strada è più sgombra di ostacoli che lo stesso Pd si era messo davanti: l’eclissi del principale partito populista che in questi anni ha infettato il campo democratico agevola il percorso per la sfida del governo del Paese.

L’ideale è che se ne prendesse atto, e lo si dicesse ad alta voce: la linea è cambiata, dei Cinque Stelle di vecchio e nuovo conio non ci interessa più niente. Sarebbe un’operazione di grande onestà intellettuale e visione politica.