Adesso Letta deve decidere se immolarsi con i grillini o dare vita all’area Draghi

Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, tanto per cambiare, hanno in questi giorni avanzato due strategie diverse come il giorno e la notte, e sembra impossibile che siano stati assieme nello stesso partito, quel Pd da cui entrambi uscirono con motivazioni opposte.

Bersani, tuttora vittima della sindrome di Stoccolma, in empatia con quei grillini che gli procurarono in streaming la peggiore figura della sua carriera politica, propugna una “federazione” con il Pd (e tante grazie) e appunto con Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo incarnazione 2.0 del più vetusto trasformismo italico, che «non è Roosevelt» (Bersani dixit) ma che per i ragazzi di Articolo Uno resta davvero il punto di riferimento fortissimo dei progressisti. Conte ringrazia dell’attenzione tanto che uno dei suoi “ispiratori”, l’anziano sociologo Domenico De Masi, ha spiegato che «ci sono molte più affinità tra M5s e Articolo Uno che non tra M5s e Pd», il che per fortuna del Pd è vero. Se avessero il coraggio di varcare il Rubicone, i bersaniani dovrebbe federarsi subito con i grillini: ma il piccolo problema è che il M5s essendo in caduta libera non è certo in grado di offrire un futuro né in Parlamento né altrove ai seguaci di Pier Luigi – lui non si ricandiderà ma gli altri che fine faranno? E infatti Bersani vorrebbe coinvolgere nel progetto anche il Pd, che può essere criticato per tante ragioni ma non sarà così folle da fondersi con l’espressione più patetica del populismo italiano peraltro ormai al crepuscolo, certificato tra l’altro dal fatto che molti parlamentari grillini si stanno tenendo ben stretti gli ultimi stipendi, un mestissimo simbolo del Götterdämmerung grillino.

Se Articolo Uno guarda a Paola Taverna, dall’altra parte c’è un altro ex segretario, Matteo Renzi, che ha indicato al Corriere della Sera una strada ancora tutta da illuminare ma che però è qualcosa di più di altre recenti sue esternazioni: «C’è uno spazio che può salvare il Paese. È l’area Draghi, oggi, in Italia, ed è l’area Macron in Francia. È uno spazio che esiste. Non dare a questo spazio una casa e un tetto per mere ragioni di egocentrismo personale sarebbe folle e da irresponsabili». Siamo dunque all’individuazione di uno spazio politico per definizione antipopulista – distante anni luce da grillismo e leghismo – e non già di un leader e nemmeno di un nuovo partito (gli accostamenti che alcuni fanno rievocando il partito di Mario Monti proprio per questo appaiono forzati), cioè di un’area che «può essere a due cifre» che si richiami alla azione, alle idee e alla politica che Mario Draghi sta impersonando da più di un anno.

Quella che il leader di Italia viva pare evocare è quella di una “draghizzazione” dei soggetti che si vorranno riconoscere nella politica del presidente del Consiglio in carica, e alla fine la domanda è sempre la stessa: chi vorrà fare questo passo? Cioè, chi è davvero disposto a collaborare per costruire una “Casa” riformista nel segno di Draghi? Questa è la questione dei prossimi mesi. Se poi ciò debba comportare necessariamente l’indicazione del nome di SuperMario come futuro premier questo resta un problema aperto, anche perché per questo passaggio è effettivamente ancora troppo presto, e tuttavia ora almeno c’è un punto all’orizzonte, «dare un tetto» a quest’area.

Da tutto ciò si capisce come quelle di Bersani e Renzi siano dunque due strade opposte e inconciliabili: per il primo, Conte (con Taverna e soci) sarebbe un pezzo addirittura di un partito unico ancorché solamente federato, per il secondo un avversario da battere. Se tutto questo è sufficientemente chiaro, molto meno nitida è la prospettiva culturale e politica del segretario attuale del Pd. Enrico Letta – va detto senza alcuna acrimonia perché è un dato oggettivo – continua a barcamenarsi nel labirinto delle alleanze come un personaggio letterario dell’Ottocento giunto dal paese natìo nella grande città, tranquillizzando tutti e non rompendo con nessuno, in attesa che le cose evolvano da sé. Ma Letta sa benissimo che le scelte vanno fatte e non subite.

Il cosiddetto “campo largo” – da Nicola Fratoianni a Carlo Calenda passando per Bersani, Conte, Renzi, Bonino – è evidentemente peggio della gioiosa macchina da guerra del 1994, un modello tipo Lego che non funzionerà mai, ed è triste constatare come trent’anni dopo non si esca ancora dalla pratica puramente algebrica di sommare pezzettino a pezzettino nell’illusione che ciò basti a definire un credibile progetto politico. La scelta non è facile. Bersani e Renzi, due ex segretari, hanno parlato. Ora dovrebbe toccare al segretario attuale dire la sua.