Un maggioritario a doppio turno o torniamo al proporzionale

Non è affatto vero che il sistema maggioritario abbia fallito in Italia. E’ vero invece che esso è stato sempre annacquato e non si è voluto istituire il doppio turno alle politiche (per i sindaci funziona eccome). Poiché riformare tutto l’assetto istituzionale sarebbe troppo complicato in questo frangente, perché non pensare ad un Parlamento che riesca ad esprimere maggioranze stabili e programmaticamente coerenti? Magari con un Presidente del Consiglio dotato di maggiori poteri. Per esempio, si potrebbe pensare sia a una “sfiducia costruttiva” sia a mettere sulla scheda il nome del candidato Presidente, in modo da legittimarlo con il voto popolare e sottrarlo alla trattativa delle (eventuale) coalizione. In una prospettiva simile, si potrebbe pensare a un maggioritario a doppio turno con una soglia di sbarramento alta, diciamo intorno almeno al 10 per cento, in modo da ridurre fortemente il numero dei possibili membri di coalizioni e indurre i partiti a produrre programmi che affrontino i veri problemi del paese, senza infingimenti e facile demagogia. 

Ad ogni modo, se il doppio turno non fosse possibile, allora a questo punto è meglio che si torni al proporzionale, come spiega qui sotto Cundari.

(francesco cundari) In una fase storica in cui tornano i peggiori fantasmi del passato, avere un quadro di regole stabile e condiviso è questione di sicurezza nazionale, tanto più urgente dopo avere ulteriormente alterato l’equilibrio del sistema col taglio lineare dei parlamentari

C’è una differenza fondamentale tra l’iniziativa promossa oggi dal Partito democratico attorno a un documento sul sistema proporzionale e le mille iniziative con cui in questi anni partiti e associazioni hanno lanciato ora l’una ora l’altra riforma elettorale o istituzionale. E la differenza è proprio qui, nel fatto che il documento presentato da Matteo Orfini ed elaborato dal gruppo che si raccoglie attorno all’associazione Left Wing (quorum ego), attorno al quale hanno finalmente deciso di sedersi a discutere i rappresentanti di tutte le correnti del Pd, non parte ancora una volta dallo spiegare i vantaggi di un particolare sistema rispetto a tutti gli altri.

Il punto di partenza è piuttosto la semplice constatazione di come trent’anni di tentativi infruttuosi, da quando nel 1993 abbiamo detto addio al sistema proporzionale, abbiano reso non più rinviabile l’esigenza di tirare un bilancio, guardarsi negli occhi e fare i conti con la realtà.

Possiamo infatti continuare a prenderci in giro, ricominciare sempre da capo la battaglia su questo o quel sistema elettorale, che a sua volta, per funzionare, richiederà sostanziali modifiche costituzionali, e andare avanti così all’infinito. È quello che abbiamo fatto nella precedente legislatura, con due anni e passa di battaglie attorno alla riforma costituzionale, e alla legge elettorale connessa, azzerate in un attimo dall’esito del referendum del 2016, proprio come nel 2006 un referendum aveva azzerato il tentativo promosso dal centrodestra a colpi di maggioranza, finito nel nulla anche quello, proprio come tra fine anni Novanta e inizio Duemila, senza nemmeno bisogno di arrivare a un referendum, era finito nel nulla il tentativo della bicamerale.

Possiamo continuare così all’infinito, ma dobbiamo dirci la verità, e cioè che l’unico risultato concreto sarà quello che abbiamo visto sin qui: un sistema che non garantisce né governabilità né rappresentanza, e in cui ogni schieramento si sente autorizzato, di volta in volta, a tentare di cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio (il fatto che poi due volte su tre gli vada pure storta testimonia solo l’estrema ingovernabilità del tutto), con l’unica eccezione, a onore del vero, del Movimento 5 stelle, che è sempre stato contrario al maggioritario e alle coalizioni pre-elettorali. L’unico concreto risultato di tanti sforzi è un sistema che offre il massimo della frammentazione e il minimo delle garanzie, in cui alla fine non vince mai nessuno ma qualcuno s’illude sempre di poterne approfittare. Ed è proprio per questo che non si riesce mai a venirne fuori davvero.

La via d’uscita da un simile incubo appare pertanto anche oggi, e apparirà sempre, in salita. Ciò nonostante è degno di nota che finalmente la questione venga posta nei suoi termini propri, guardando la luna anziché il dito, e cioè la follia di un sistema in cui da trent’anni Parlamento e opinione pubblica sono perpetuamente impegnati in una guerra ideologica sulle regole del gioco. Tornare al proporzionale significa anzitutto uscire da questa trentennale ossessione, finirla con il regolismo, spezzare l’incantesimo di questo eterno giorno della Marmotta in cui si parla sempre delle regole del gioco e non si gioca mai. Un meccanismo che logora la legittimazione di partiti e istituzioni, tanto più pericoloso in una fase storica in cui tornano i peggiori fantasmi del passato, specialmente dopo che abbiamo ulteriormente alterato l’equilibrio di pesi e contrappesi del sistema con il taglio lineare dei parlamentari. Di qui l’esigenza di fermare la giostra e ricostruire un sistema in cui ciascun partito si presenta con il suo simbolo e il suo programma, prende i voti su quelli e prende seggi in proporzione ai voti, magari anche con un’opportuna soglia di sbarramento anti-frammentazione.

Con questi chiari di luna, avere un quadro di regole stabile e condiviso è prima di tutto una questione di sicurezza nazionale. Il Partito democratico sembra essersene finalmente reso conto. Speriamo non sia il solo.