E venne il turno di Mélenchon, lo sconfitto che piace alla sinistra radicale

Nel febbraio 2015 partì da Roma la “Brigata Kalimera”, destinazione Atene, per rendere omaggio alla sinistra anticapitalista greca che vinceva le elezioni, il capo si chiamava Alexis Tsipras, leader di Syriza, per i più estremisti c’era il suo ministro per l’economia, quello in motocicletta, Yanis Varoufakis – poi i due litigarono, come da secolare copione della sinistra.

Oggi, con otto anni di più sul groppone, chissà chi potrebbe dar vita alla “Brigade Bounjour” per passare qualche giorno a Parigi a lezione di Jean-Luc Mélenchon, ultima incarnazione del grande capo della sinistra antiamericana, antiliberale e anticapitalista che domenica ha ottenuto un ottimo 22% alle presidenziali francesi, a momenti andava al ballottaggio contro Emmanuel Macron, e che dunque adesso ha in mano carte decisive per la probabilissima vittoria finale del presidente uscente.

Dopo Tsipras, vennero Pablo Iglesias, leader col codino di Podemos che l’anno scorso ha lasciato la politica; Jeremy Corbyn, ex leader laburista e antieuropeista che ha perso nel Regno Unito; Bernie Sanders, democratico americano sconfitto da Joe Biden alle primarie. Tsipras almeno vinse – peraltro poi governò su posizioni abbastanza moderate – anche se non ha lasciato grandi tracce nella storia della sinistra mondiale, mentre gli altri sono stati più o meno tutti sconfitti.

Di tutti questi s’innamorò la sinistra-sinistra del nostro Paese, sempre tarlata da un richiamo provinciale per le rivoluzioni degli altri («Fare come in Russia» d’altra parte è da un secolo nel suo Dna), perennemente alla ricerca di una scintilla che nel mondo scocchi per invertire il corso della storia, non trovando in se stessa l’energia per cambiare il mondo lo ha sempre cercato altrove: esaurita la spinta propulsiva delle sollevazioni sudamericane, finanche quella di Maduro, chiusa da anni la pagina terzomondista, ecco che all’ombra della Tour Eiffel si staglia adesso questo ex trotzkista che si è inventato per il suo partito un nome che sarebbe piaciuto a Victor Hugo, “La France Insoumise”, e che da anni è diventato il punto di riferimento di un umore radicale, dunque molto “sentimentale” e istintivo, come d’altra parte è tipico del vecchio socialismo francese alla Leon Blum ma anche accogliente per i violenti con i gilet gialli.

È un capo non improvvisato, Mélenchon, già cinque anni fa aveva preso un bel 19% (dunque alla fine stavolta è cresciuto di un paio di punti), un politico vero, grande oratore e abile organizzatore, uno che sa come si soffia sul fuoco della protesta. In ultima analisi si tratta di una moderna forma di capo poujadista, più protesta che proposta, al confine tra politica e rivolta che sa raccogliere il malcontento senza prospettive.

La nostra sinistra-sinistra si è dunque molto eccitata per il risultato del camarade francese, a partire – rieccolo – da Stefano Fassina, il quale ha messo nero su bianco l’autentica tragedia – senza alcuna ironia – di questa sinistra: che «i naufraghi della globalizzazione e dell’euro che Mélenchon ha intercettato, possono votare l’estrema destra di fronte a un candidato dell’establishment come Macron che continua l’agenda liberista di questi anni». È una tragedia per un partito di sinistra, una cosa da anni Venti dell’altro secolo, essere fungibili ai fascisti: nel senso che i due elettorati si rassomigliano, si annusano, si specchiano l’uno nell’altro nel segno del “naufragio della globalizzazione” e della lotta alla “agenda liberista”, due elettorati in difficoltà esistenziale oltre che economica, poco colti, potenzialmente eversivi.

Mélenchon ha visto subito la trappola, e per questo già domenica sera, a differenza di cinque anni fa, ha dato subito l’indicazione “in negativo”: non un voto a Marine Le Pen. Una mossa di un leader che non vuole passare alla storia come i comunisti tedeschi che cent’anni fa aiutarono indirettamente Adolf Hitler in odio ai socialdemocratici.

Sono problemi di grande portata che certo non riguardano la piccola politica dei sinistri italiani, perennemente alla ricerca del proprio ego, vittime delle proprie alchimie politiciste, intrappolati nella maledizione di non avere un capo, non diciamo un Mélenchon ma nemmeno una sua brutta copia. In attesa di andare oltre le banalità di rito (se n’è avuta una papposa lezione con l’intervista di ieri di Roberto Speranza), si eccitino pure per ciò che avviene a Parigi. “Brigata Buongiorno” può attendere.

(il foglio) Così Beppe ProvenzanoAndrea OrlandoGianni CuperloMatteo Orfini, tutta l’ala corrispondente alla correnti più a sinistra del Pd si è guardata bene dal commentare l’esito del primo turno delle presidenziali.

Quasi provassero addosso l’imbarazzo di non saper dove posizionarsi. Cosa dire. Quale lettura provare a dare a fatti di così grande importanza politica.

Nelle stesse ore il loro segretario pubblicava su il Foglio un lungo e articolato saggio in cui vengono passate in rassegna le priorità per la costruzione di una nuova Europa. Un Pd che, sulle rovine degli altri partiti, ha in questa fase ritrovato una strana unità, deve aver preferito ricacciare indietro i propri retropensieri e le proprie fisime. Ma fino a quanto potrà durare questo rifiuto di esporsi?