Orsini, Di Cesare e gli altri: la fabbrica dell’ospite televisivo

La sua gran rentrée a “#Cartabianca”, dopo la minaccia di un’epurazione durata sì e no quarantott’ore, aveva l’aria solenne degli eventi televisivi.

Il piglio severo, lo sguardo fisso, un po’ spiritato, Orsini calava subito l’asso: “Le persone mi hanno contestato per una ragione endopsichica, hanno paura che abbia ragione, temono la realtà”. Siamo dalle parti del monologo di Joker, poco prima di sparare in faccia a De Niro, al Murray Franklin Show. Mentre googliamo “endopsichico” ecco Scanzi che ce lo spiega facile: “Orsini ci sta antipatico perché ci prende, e dice cose che ci fanno paura: è il Crisanti della geopolitica”. Orsini ci prende. Siamo noi che non vogliamo accettarlo. Tiè.

E’ il momento in cui parlarsi addosso, analizzare, sminuzzare l’estenuante flusso discorsivo della tv diventa più importante del racconto degli eventi (“ma ora basta parlare degli ucraini, parliamo di noi che parliamo degli ucraini”). E’ il momento in cui una ragnatela ingarbugliata di fatti opinioni e minchiate in libertà, ormai tra loro inseparabili, cala come un pesante sipario sopra la realtà, annunciando il luminoso ingresso in scena di un nuovo eroe da talk-show. Lo chiameremo, d’ora in poi, il “momento Orsini”.

Da tempo RaiTre si è del resto specializzata nella creazione di dissidenti, martiri e paladini della libertà di parola, dal casino con Fedez al primo maggio al contratto stracciato di Orsini. Ma la costruzione di Orsini, inteso come personaggio televisivo, resta esemplare. Un caso virtuoso di catena di montaggio nella fabbrica degli ospiti: scoperto da Formigli, portato alla ribalta da Berlinguer, quindi dotato di rubrica sul Fatto, al posto del Messaggero (sul Fatto la dissidenza si porta meglio). Orsini è la maschera del momento, l’antagonista ideale (pacato, moderato, autorevole, freddo e impassibile), per questa fase di lunghissima incertezza geopolitica.

Se Dario Fabbri rassicura e dà qualche certezza, Orsini lavora su angosce, doppi giochi, sensi di colpa. Insieme sono perfetti. Come Batman e Joker. I suoi highlight ormai sono noti: “Diamo a Putin tutto quello che ci chiede”; “Se Zelensky diventa un ostacolo alla pace, dobbiamo mollarlo”; “Le sanzioni siano commisurate al numero di bambini morti, come in Yemen”; “Il più grande onore della mia carriera e della mia vita di studioso è stato l’elogio della Tass, l’agenzia di stampa russa”. E poi il suo cavallo di battaglia: “Abbiamo provocato la Russia con gigantesche esercitazioni Nato a est”. Una frase il cui effetto teatrale è garantito: basta omettere le esercitazioni russe e quelle congiunte che, Nato e Russia, fanno insieme, dinamica chiara anche per chi non è abbonato a Limes ma ha visto “Top Gun” (e il sequel, non a caso, apre con tempismo perfetto il prossimo festival di Cannes). “La colpa di Orsini? Essere in disaccordo con la narrazione mainstream”, dice la deputata Yana Chiara Ehm di Potere al popolo in un intervento alla Camera. Ma il consenso è trasversale.

Astro nascente nel mercato degli opinionisti, Orsini lo è diventato subito passando, come si sa, in una manciata di giorni, dall’invisibilità di un oscuro professore universitario al rango di star più richiesta dai talk. Tutti lo cercano. Tutti lo vogliono. Se non possono averlo in studio lo evocano come un simbolo, il “dissidente Orsini”, come dice Giletti chiacchierando con Massimo Cacciari della “libertà di parola”. (…)

Il sociologo della Luiss non ha mai avuto così tanto successo come da quando è diventato una vittima esemplare del “maccartismo”, ultima creatura mitologica del dibattito italiano. Mancava solo (ed è arrivata puntuale, come al solito) l’investitura di Freccero: “Orsini prova a valutare gli eventi senza fanatismo ma nel contesto attuale non è ammesso, sembra di vivere nel maccartismo”. Cosa c’è di più maccartista di un martedì sera qualsiasi in cui da Berlinguer parlano Orsini e Di Cesare, da Floris si elogia la florida democrazia russa che “i governi occidentali si sognano” (come dice Fulvio Grimaldi), e da Giordano c’è ospite Aleksandr Dugin, l’ideologo di Putin. C’è sicuramente un disegno per non farli parlare uno alla volta.

Il caso Orsini, si sa, ha tenuto banco sui giornali e in tv per una settimana. Ma, naturalmente, non ha nulla a che fare con la censura, il pluralismo, la libertà di parola, e assai poco anche con l’Ucraina, la propaganda russa (o americana, secondo Freccero). E’ invece un caso da manuale dei nostri tempi: ipertrofie dell’ego, esibizionismo, ansia di visibilità e la solita capacità della televisione di fiutarle a distanza, come gli squali col sangue. Poteva forse, la televisione, lasciarsi sfuggire un’analista che senza alcuna traccia visibile d’ironia scrive su Facebook: “Oggi ho lasciato il Messaggero. Mi scuso con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento solo per leggere i miei articoli”? O ancora, post “geopoetici” sulla vocazione nietzschiana d’ogni studioso, “ponte sospeso su un abisso”, con foto dell’Adelphi di Aurora tra le mani?

Le domande sono molte. Perché uno studioso che ha svolto ricerche significative e originali sulle brigate rosse e le loro matrici culturali decide di mettersi in scena così? Perché finisce a straparlare di “consorterie molto potenti”, come uno Iacovoni qualsiasi che si scaglia contro le solite “conventicole”? (Il perché lo spiega Guia Soncini ne “L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi”, dove tra l’altro è ribadita l’assoluta centralità di Giancarlo Iacovoni, personaggio immortalato da Virzì in “Caterina va in città”, per comprendere l’Italia di oggi). Ma il fenomeno si spiega, in parte, anche con il “populismo accademico”. Quello strano incrocio tra università e personal branding (Barbero, Montanari, Donatella Di Cesare) che di questi tempi si porta molto.

Prima dei social, dei podcast, delle ospitate televisive fisse in un palinsesto dominato dai talk-show, il professore universitario nutriva il proprio ego nel chiuso dell’aula universitaria o nelle relazioni esposte in convegni catacombali, celebrati tra iniziati. Ora le possibilità sono sconfinate. Lo diceva pochi giorni fa anche Aldo Grasso: “Il professore universitario non s’interroga sui motivi per cui è stato invitato e così finisce prigioniero dei meccanismi infernali del talk, dove è bandita ogni complessità, dove regna la radicalizzazione, dove la rissa è l’alimento degli ascolti”. Qui, però, il confine tra finire in trappola e desiderare con ogni mezzo di finirci è assai sottile.

Cacciato anche lui temporaneamente dalla Rai, dopo una birra sorseggiata in diretta a “#Cartabianca”, Mauro Corona confessò che in tv ci andava “solo per vendere qualche libro in più”. “E poi ho avuto una vita tormentata”, aggiungeva, “piena di disgrazie”. “Quindi ci vado anche per vanità, per dire ‘io esisto’”. Vendere i propri libri (o qualsiasi altra cosa), esibirsi, nutrire il proprio ego: il forsennato errare tra una trasmissione e l’altra della carovana di ospiti è tutto qui.

Non basta dire che i talk-show sono “spettacolo” travestito da informazione. Questo lo sanno o dovrebbero ormai saperlo tutti.  Come una seduta di autocoscienza collettiva, parlano di noi, dei nostri tic, delle nostre megalomanie (vedi il transfert delirante con cui, ormai da un mese e passa, spieghiamo agli Ucraini cosa dovrebbero fare).

I talk-show lasciano emergere tipi sociali “rappresentativi di pezzi della società italiana”, come amano dire i conduttori. Ma lo dicono per lavarsi le mani. “Orsini è una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società”, spiegava Berlinguer protestando con la rete che gliel’aveva appena tolto, rimandando così a noi la responsabilità (non c’è dubbio che pescando a strascico nella “società italiana” o nei canali Telegram potremmo formare una superlega degli opinionisti, gli Avengers del dissenso, la sagra del punto di vista “controverso”). Ecco il punto.

La retorica del “pluralismo”, come sempre capita col birignao postmodernista, è un’astuta paraculata per fare della ressa dello share una battaglia di civiltà in nome della “libertà di parola”. Come se Churchill, alla radio, dopo aver spiegato agli inglesi che “la Polonia è stata ancora una volta invasa da due grandi potenze che l’hanno tenuta in schiavitù per 150 anni, ma che sono state incapaci di conquistare lo spirito della nazione polacca”, aggiungesse, “ma ora è giusto che sentiate anche le ragioni di Hitler, qui accanto a me in studio, ci è venuto a trovare il dottor Goebbels, prego”