Ida Dominijanni e la logica ( poi, la vera storia di “ha stato Putin”)

Su twitter Luciano Capone segnala questo pensiero di Ida Dominijanni (Catanzaro, 1954),  filosofa, firma del Manifesto dal 1982 al 2012:
“il popolo ucraino sta attraversando l’inferno e merita , lo dico col cuore e la ragione, tutta la nostra solidarietà, ma il suo è un governo populista , nazionalista e guerrafondaio, che si sta attrezzando ad una guerra fatta con le armi e l’addestramento Usa-Nato, i civili armati uno per uno , i reparti speciali neonazi e mercenari vari. Prima ce ne accorgiamo e diamo un taglio alla mistica di Zelenski martire della libertà democratica meglio è”.

Su twitter segnalano una frase con una stessa logica: “Lo stupratore è una persona orribile e merita di andare in galera, però anche la ragazza, che se va in giro con una minigonna vertiginosa…”

La seconda osservazione concerne “si sta addestrando ad una guerra fatta con le armi”. E’ notorio che le guerre si fanno con i baci Perugina.

DANIELE RAINERI (il Foglio)

Ha stato Putin, davvero. Un reportage a spasso nel tempo

Quando il presidente russo ha dato l’ordine di invadere l’Ucraina (di nuovo, come otto anni fa), di assediarne la capitale e di massacrare con l’artiglieria gli abitanti di Mariupol e di Kharkiv (per ora, poi si vedrà) contava su una reazione tiepida da parte dell’occidente. E perché faceva tutto questo affidamento sull’occidente, come se ci sapesse decifrare in anticipo? Perché siamo stati noi ad addestrarlo così in questi anni. Siamo stati prevedibili. Operazione russa dopo operazione russa, abbiamo sempre scelto di default di prendere la posizione meno forte. Abbiamo sempre evitato la collisione. Ci siamo sempre sforzati di garantire una soluzione finto-dura e molto accomodante. Glielo abbiamo insegnato noi a comportarsi così e lui ha applicato la lezione.

Anzi, una parte dell’opinione pubblica occidentale negli anni ha cominciato a provare una fascinazione perversa per Vladimir Putin. Il suo nome è diventato sinonimo di forza da contrapporre alle mollezze europee e il presidente russo ha fatto molto per rafforzare questo stereotipo. Cavalcare a torso nudo, tuffarsi nei laghi, praticare judo: le foto diffuse dal Cremlino erano pensate per esaltare il modello Putin come politico differente. Finalmente qualcuno che sa il fatto suo. Finalmente un uomo di polso. Finalmente qualcuno con le idee chiare. “Scambio mezzo Putin per due Sergio Mattarella”, come ebbe a dire l’ex ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini. Nacque una simpatia di massa per l’uomo forte russo, che andava forte a destra ma non dispiaceva nemmeno tanto nella sinistra-sinistra, perché per tradizione c’era meno diffidenza verso Putin che verso gli Stati Uniti. I putinisti nostrani cominciarono a minimizzare per partito preso tutte le operazioni ostili compiute dalla Russia e a ridicolizzare chi sospettava della malafede del suo presidente. E tutto questo si condensò in un motto: ha stato Putin.

“Ha stato Putin” come tante formule disgraziate di questi anni fa parte di un repertorio che andava forte sui social. Assieme a “perché non te li prendi a casa tua?” e “i giornali non lo dicono”, passando per il perentorio – seppure di breve durata – “parlateci di Bibbiano!” fino ad arrivare a “dittatura sanitaria”. Ha stato Putin era un raro tentativo di sarcasmo in quella zona social di solito molto cupa. Un altro tentativo di sarcasmo è chiamare gli immigrati con la parola “risorse”, per ridicolizzare chi pensa che gli stranieri diano un contributo fondamentale all’economia dell’Italia. Il fatto è che gli stranieri sono davvero delle risorse perché la loro presenza puntella l’economia di questo paese e a dirlo è la matematica. E anche “ha stato Putin” è un tentativo di sarcasmo che non funziona. Il motivo è semplice: spesso ha stato davvero Vladimir Putin.

Giovedì 17 marzo la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, è andata davanti alle telecamere dei giornalisti moscoviti per dire che “la Russia non bombarda le città ucraine e a dispetto dei video finti della Nato tutti sapranno la verità”. Lo ha detto mentre l’esercito russo bombardava Mariupol, Kharkiv, Kyiv e altre città ucraine. Zakharova occupa quel ruolo da anni, come del resto fanno molti altri attorno al presidente russo: non c’è ricambio al vertice, chi è rodato e affidabile rimane le facce sono sempre le stesse.

Questa linea ufficiale che ignora la realtà in modo deliberato porta alla mente la prima grande bugia di Putin, la menzogna primigenia che ha impostato tutto quello che è seguito: il caso del sommergibile Kursk. Nell’agosto 2000 la marina russa organizza la prima grande esercitazione in mare dopo il crollo dell’Unione sovietica, per segnalare che si affacciava di nuovo sulla scena mondiale. Circa trenta fra sottomarini e navi da guerra che dovevano coordinarsi fra loro e fra questi il sottomarino atomico Kursk, lungo come due aerei di linea messi uno in fila all’altro e con 118 uomini di equipaggio. Alle dieci del mattino dell’11 agosto mentre alcuni marinai caricano un siluro da esercitazione il propellente del siluro s’incendia per un’avaria e nel giro di due minuti le fiamme fanno scoppiare le testate – vere, cariche di esplosivo – di altri sei siluri. Le navi in superficie sentono le esplosioni, ma non comincia alcuna operazione di soccorso. Il sottomarino si adagia sul fondo del mare con alcuni superstiti. Nella notte un sottomarino mandato a indagare filma il Kursk e i danni. Ma il giorno dopo il comandante della Marina in un comunicato ufficiale festeggia l’esercitazione e dice che è stata “un successo perfetto”. Il presidente Putin va in vacanza. La notizia comincia a circolare, ma non c’è alcuna conferma ufficiale. Passano i giorni, il governo russo ammette che c’è stato un problema ma rifiuta l’aiuto internazionale, non vuole che qualche straniero si avvicini e soccorra il sottomarino isolato. A bordo a quel punto sono morti tutti, ma il fatto che non ci sia stato nemmeno un tentativo di salvataggio in tempo utile e che le informazioni siano state negate così a lungo fa infuriare l’opinione pubblica.

Fa impressione andare a rileggere la cronaca di quei giorni. Due parlamentari in particolare hanno cominciato per primi a chiedere la verità sul Kursk e uno è Boris Nemcov, che quindici anni dopo sarà assassinato a pistolettate nella schiena vicino al Cremlino. Un’altra protagonista di quella campagna è la radio Eco di Mosca, che è stata chiusa il 3 marzo di quest’anno perché considerata poco allineata. Putin appare in alcune immagini pubbliche, ma non è vestito a lutto mentre il paese piange la morte dei marinai intrappolati in fondo al mare. Due settimane dopo incontra alcuni parenti a porte chiuse, ma un filmato non autorizzato riesce a diventare pubblico. Si vede una madre che protesta, viene sedata e portata via. Boris Kuznetsov, l’avvocato delle famiglie di cinquantacinque marinai, dice che quel giorno fu il peggiore della vita di Putin e che da allora cominciò la sua stretta sui media e sul resto. “Non vuole finire mai più in una situazione così”, dice a Radio Free Europe dal suo esilio per motivi di sicurezza negli Stati Uniti. La prima grande esercitazione navale della Russia dopo l’Unione sovietica doveva lanciare un messaggio ovvio, siamo tornati a essere una potenza, invece suona come un ritorno all’opacità dell’era precedente. I disastri non si discutono in pubblico, sono coperti dal segreto. Ventidue anni più tardi, la struttura putinista è assai più solida e ha un controllo molto più stretto sul paese. E il ministero degli Esteri può permettersi di negare che in Ucraina ci sia una guerra. Persino la parola è vietata. (continua)