Antonio Scurati/ Tanto la prenderemo tutti

«Tanto la prenderemo tutti». Questo il ritornello che ha sostituito jingle bells nel Natale 2021. Lo abbiamo sentito ripetere dai parenti nelle riunioni di famiglia a cui in molti non abbiamo saputo rinunciare, da amici e conoscenti nei bar di quartiere, da sconosciuti in coda davanti alle farmacie o alle seggiovie: «Tanti auguri, tanti auguri…», poi, subito dopo, quel sepolcrale e antifrastico «tanto la prenderemo tutti». Spesso, a corollario della profezia, veniva — e viene, verrà sempre più — un lapidario: «Così non si può andare avanti». Non so se sia vero. Non lo sa nessuno. La scienza, cui personalmente mi affido, si è fin qui dimostrata mirabilmente efficace nelle sue applicazioni pratiche (i vaccini) ma piuttosto fallimentare nella sua capacità di previsione. Sarebbe dunque esercizio vano quello di dedicarsi a delineare scenari futuri. Dovremmo, invece, interrogare quella frasetta — forse insensata — con la quale la psiche collettiva esprime il suo disagio: «Tanto la prenderemo tutti». E il suo corollario: «Così non si può andare avanti». È annidata lì dentro, nella vastità dei luoghi comuni, la verità sul mondo di domani. Dobbiamo dare ascolto al tono con cui quelle frasi vengono pronunciate — a volte rabbioso, sconsolato ma più spesso incline a una fatalistica rassegnazione, quasi risoluto — per prevedere cosa ci aspetta. È l’umore con cui andiamo incontro a questo nostro nuovo giorno che, a lungo andare, si rivelerà decisivo.

Il mutamento di prospettiva
La combinazione di quelle due frasi sintomatiche indica, a mio avviso, che siamo a un punto di svolta. La maggioranza di noi si avvia a mutare la propria prospettiva sulla pandemia e, con essa, la propria visione del mondo. Forse lo ha già fatto. Se nei primi mesi dell’emergenza la prospettiva è stata di tenore epico-eroico — lotteremo, resisteremo, moriremo, infine vinceremo e i vivi, seppelliti i morti, rinasceranno —, se negli ultimi mesi ha prevalso una tonalità tragica (non c’è riparo, non c’è salvezza, l’inverno è infinito), ora va affermandosi un punto di vista più prosaico, più dimesso, uno sguardo rivolto all’epica minore della vita quotidiana, domestica, ordinaria. Detto in altri termini, non siamo più disposti a sopportare uno stato d’emergenza di cui non si vede la fine, una sospensione indefinita del tempo ordinario delle nostre vite. Sempre più persone avvertono come prioritario e inderogabile il ritorno alla normalità, anche a costo di cambiare la propria idea su cosa sia una vita normale.

Una «normalità diminuita»
Questo significherebbe che siamo pronti ad accettare la malattia da Covid tra i rischi della nostra vita futura, a inserire questa nuova causa di sofferenza e morte alla lunga lista delle patologie che abitualmente insidiano la nostra salute. Questo significherebbe che siamo pronti a dire di un nostro conoscente, amico o parente, che è morto di Covid come abbiamo detto e diremo che è morto di tumore. A patto che ci venga restituita una vita normale, di una «normalità diminuita», se preferite, ma pur sempre normalità.

La rinuncia a una quota di privilegio
Ci abitueremo a vaccinarci all’inizio di ogni nuovo inverno, a travisare i nostri volti sotto le mascherine sui mezzi pubblici, a qualche altra piccola o grande rinuncia. Ci adatteremo, insomma, a una nuova norma. Poi, di tanto in tanto, qualcuno si ammalerà, qualcun altro cadrà. D’altro canto, noi cosiddetti «occidentali» delle generazioni nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale, apparteniamo al pezzetto di umanità più sicura, protetta, meglio curata e meno esposta al rischio di malattie che abbia mai calcato la faccia della terra. Si tratterebbe, dunque, solo di rinunciare a una quota di questo nostro privilegio.

La fine di un sogno
Se questo nostro attuale umore dovesse disegnare il mondo di domani, ciò comporterebbe, però, anche un non trascurabile mutamento nella nostra visione del mondo: il leit motiv del capodanno 2021 — «tanto la prenderemo tutti» — ci racconta anche di una sconfitta. A essere sconfitto definitivamente sarebbe il sogno moderno di previsione e controllo, l’idea prometeica dell’uomo come dominatore della Terra e del proprio destino. Dovremmo abbandonare la speranza trionfalistica nella guarigione per far posto al più umile concetto di cura. Dovremmo accettare l’idea che l’uomo è l’animale costitutivamente «malato», che non esiste «corpo sano» ma un organismo sempre in precario equilibrio tra salute e malattia.