D’Alema e la chiesa dei migliori contro il partito di Draghi

(de bernardi e scoppetta) All’inizio del 2022, poco prima dell’elezione del successore di Mattarella, è possibile mettere un punto fermo sulla politica di quella che molto tempo abbiamo chiamato “sinistra” italiana e che da decenni ormai si presenta come ” quel che resta del Pci”.

Il fiasco politico dell’operazione Art.1 e poi Leu certifica che si tratta  di un ceto politico la cui tracotante convinzione di appartenere alla schiera dei “migliori” e di essere depositario di una “verità” che va oltre le inevitabili lezioni della storia, contrasta con l’assenza di consenso tra gli italiani.  Nonostante i talk show che  intervistano ogni 15 giorni Bersani come se fosse uno statista e il ministro della salute Speranza come se fosse un tecnico  passato da Conte a Draghi, l’operazione politica di D’Alema e Bersani, nata dalla convinzione che vi fosse una prateria elettorale a sinistra, si è rivelata catastrofica: non ha raccolto consenso e soprattutto non ha niente da dire sul futuro del paese. È una chiesa senza fedeli, i cui sacerdoti sono alla ricerca di una casa dove poter continuare a pontificare (e magari guadagnare ancora qualche seggio parlamentare).

Che differenza c’è tra D’Alema e suoi eredi come, Cuperlo, Zingaretti, Provenzano, Bettini, Orlando, che oggi guidano il partito? Nonostante il debole e accorato appello di Letta a difesa del partito, la golden share del Pd è ancora saldamente nelle mani della corrente “dalemiana”, che è stata l’artefice con un consenso unanime dell’alleanza antiriformista tra Pd e M5S, tra massimalismo e populismo, incarnata nel Conte II e nel sogno del Conte III.

L’ombra del Conte III aleggia nelle parole di D’Alema che chiama a raccolta proprio la sua prole politica dentro e fuori il Pd per combattere Draghi, che unisce in sé sia quella tradizione liberalsocialista tanto esecrata dagli ultimi epigoni del Pci, sia la sua natura di “banchiere”, espressione vivente del capitale finanziario globalizzato, altrettanto esecrato in nome del nazionalismo statalista, che lega dalemismo e populismo.

L’attacco a Draghi è il vero contenuto politico delle dichiarazioni di Capodanno del “lider maximo” a pochi giorni dall’apertura delle urne per eleggere il Presidente della Repubblica: evocare l’attacco alla democrazia, il primato della politica e dei partiti, la lotta al capitalismo internazionale è l’ingrediente ideologico fondamentale per organizzare operazioni corsare contro candidati ritenuti ostili, a partire da Draghi stesso, identiche per finalità ed modalità a quelle messe in atto nel 2013 e nel 2015.

Le truppe dei peones del Pd sono l’interlocutore ideale di questo disegno, tra cui si annidano uno stuolo di vedove e vedovi di Conte, che non hanno accettato la svolta renziana del governo Draghi, che ancora sono sensibili al richiamo di “Conte o morte”, in cui si annida l’intento di restituire alle oligarchie di partiti esanimi e di movimenti i dissoluzione il maneggio delle risorse pubbliche e la gestione dei fondi europei in vista delle elezioni del 2023.

Se non si riesce a cacciare Draghi da ogni ruolo, meglio imbalsamarlo al Quirinale e andare quanto prima alle elezioni per intestarsi la lotta sinistra demopopulista contro destra sovranista, perdere quasi sicuramente, ma trovarsi tra le mani un partito minoritario, identitario e ideologico: una specie di Linke o France Insoumise in salsa italiana, magari dotato di un bottino elettorale più ricco collocato per un quinquennio nella comfort zone dell’opposizione.

D’Alema può essere considerato il vero leader della sinistra massimalista post-comunista e il Pd con il suo 20% è ormai un partito non contendibile da tutti quelli che, a cominciare dall’operazione del Lingotto di Veltroni, hanno tentato di mettere assieme socialdemocrazia e liberalismo per rompere con la tradizione comunista italiana. Non è un caso se torna oggi quel D’Alema per riprendersi il Pd che aveva tristemente lasciato nel 2013 dopo la vittoria di Renzi alle primarie: riprendere il controllo del Pd per trasformarlo nell’ennesimo “partito nuovo” cioè nella quarta reincarnazione del Pci e abbandonando definitivamente alle ortiche il vecchio partito riformista di Renzi e Veltroni nel quale potevano convivere socialdemocrazia e liberalismo progressista come in ogni partito della sinistra europea.

La storia del riformismo in Italia dalla caduta del muro di Berlino fino ad oggi è stata una lotta difficilissima e che solo in poche occasioni è riuscita a imporsi e a uscire da una condizione di minoranza: con l’Ulivo di Prodi, con la nascita del Pd, con la stagione renziana, e che ha avuto per posta la modernizzazione democratica del paese, la laicizzazione della politica, il superamento di una visione fideistica della storia e il rifiuto del comunismo, l’antipopulismo e l’adesione a un convinto europeismo atlantista.

Da una parte chi intende impedire che la sinistra italiana si liberi dalla soggezione alla tradizione del Pci, ritenuta una chiesa eterna fuori dalla quale non c’è nessuna salvezza e tutta la storia si risolve in un eterno ritorno.

Dall’altra chi intende dopo la caduta del Muro costruire una forza politica italiana che sia simile ad ogni partito della sinistra europea, che si ricolleghi al riformismo europeo e atlantico di Olof Palme, e non abbia nulla a che fare con i propositi anticapitalisti della chiesa eterna che da Gramsci Longo e Berlinguer è arrivata a congiungersi addirittura con Conte e i populisti.