Get back po esse fero o piuma, i Beatles solo per chi li ama

Nel 2018 Apple Corps., che detiene i diritti sull’opera dei Beatles, ha proposto a Peter Jackson un’impresa quasi impossibile,  visionare 56 ore di girato e oltre 100 ore di audio sui Beatles. Erano materiali video contenuti nel suo caveau sin dal 1969, girati dal regista Michael Lindsay-Hoggper per realizzare uno speciale tv poi cancellato. Solo  parte di questo girato confluì nel documentario Let It Be, dedicato al celebre concerto sul tetto della Apple del 1969.
Sir Peter Robert Jackson (1961) è il regista neozelandese famoso per la trilogia de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien, ma è anche un grande fan dei Beatles, per cui la molla di tutta l’operazione è stata la sua curiosità di approfondire i rapporti tra i quattro baronetti e la onnipresente Yoko Ono, ritenuta colpevole dello scioglimento secondo la narrativa ufficiale. La prima cosa che dunque vorrei dire su questa serie in tre puntate di otto ore è quella di sconsigliarla a chi non ama visceralmente i Beatles, cioè il 20% della popolazione mondiale. Chi non li ama, non incominci neppure, resisterà giusto per dieci minuti, poi preferirà tornare ad ascoltare Tiziano Ferro o Fossati. Guardarsi un documento sul processo compositivo dei Beatles e sulla disorganizzazione di un apparato che doveva realizzare un album e un concerto, può essere noioso e disturbante.

Giorno per giorno, lunghe sessioni giornaliere in cui John Lennon & Yoko, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison provano, ridono, parlottano, compongono, improvvisano e ogni tanto discutono. Alla fine  la celebre esibizione sul tetto degli Apple Studios di Savile Row, nel cuore di Londra. Intorno ai cinque ci sono il regista ingaggiato per riprendere le prove, Michael Lindsay-Hogg, interessato al reality e capace perciò anche di mettere microfoni nascosti, e tanti altri personaggi, manager, tecnici, bonzi in preghiera, mogli e figli. C’è anche un’apparizione di Linda Eastman, la leggiadra moglie di Paul, che scopriamo a parlare con Yoko. Non c’è più il manager Brian Epstein, scomparso a soli 32 anni, e ciò spiega la disorganizzazione, perchè non c’è più la disciplina del padre (così lo spiega Paul) che risolveva tutti i problemi ma la esigeva. Chi avrà la pazienza e l’amore di guardarsi le otto ore ascolterà tanta musica improvvisata, capirà come nasce un disco o una canzone nella mente di qualche genio, ma soprattutto capirà i Fab Four uno per uno. Ciò che immaginavamo si scoprirà, ma la realtà farà male a qualcuno, ne sono convinto.

Siamo nel momento in cui la band è già in crisi e sta per dividersi, è ormai deciso che questo sarà l’ultimo album però non registrato in studio ma suonandolo dal vivo perchè tutto ebbe inizio così, suonando insieme ad Amburgo ogni sera, divertendosi assieme. Dunque, vogliono finire suonando e divertendosi come hanno iniziato, questo è ciò che li ha uniti. Poi ognuno ha la sua vita e i suoi progetti, ed è ciò che li divide, ma la musica li ha fatti incontrare e la musica suonata dal vivo celebrerà la fine della band. Eccoli quindi a suonare i rispettivi strumenti e a ri-trovarsi cantando, amando quello che fanno, complici. Ecco poi le singole personalità, George, triste, alla ricerca della sua strada, compresso tra John e Paul. Ringo, il più buono di tutti, che va d’accordo con tutti  perchè è un pezzo di pane. Poi i due leader, John, pazzo furioso, istrionico, poliedrico, improvvisatore, l’artista maledetto e dipendente. Con Yoko appiccicata a meno di un metro, Yoko che legge, ricama, o lancia urla scomposte che per lei sono canto, imposta a tutti come la quinta beatle. Infine il genio musicale, Paul, con la sua evidente leadership. Capace  di  integrare idee, completarle, di arrangiare, Paul McCartney è il timone e il nocchiero. Il suo carisma, la sua energia, la chiarezza delle sue idee (sa sempre cosa è meglio) creano negli altri una problematica evidente, non vorrebbero subirlo ma senza di lui non si va avanti.

Con un eccezionale intervento di restauro Jackson è riuscito a ripulire gli audio permettendoci di cogliere anche frasi pronunciate a mezza voce dai Fab Four mentre pensavano di esseri coperti dalla musica. In questi dialoghi captati e che dovevano restare segreti, il rapporto tra John e Paul non appare di scontro ma di grande rispetto e amore. Solo per questo particolare Get back fa piazza pulita di una pubblicistica insulsa che esaltando l’arte di John faceva carico a Paul della rottura. Invece è stato il contrario, Paul appare quello che più di tutti ha tentato di rimettere a posto i pezzi, è sempre lui che più volte ricorda agli altri da dove arrivano e cosa li unisce. C’è perfino una sequenza in cui Paul legge un articolo, che annuncia la separazione della band, con tono da anchorman mentre John sottolinea ogni frase con un divertente commento sonoro. Fosse per lui non si dividerebbero mai e c’è un momento in cui spiega come la presenza d Yoko non debba disturbarli, è una scelta di John che va rispettata. Insomma, Paul da questo documento ne esce più grande e carismatico di prima, eppure è stato proprio lui che per 50 anni non ha dato il permesso all’operazione.  La docuserie di Peter Jackson contiene anche momenti incredibili, giocose esecuzioni musicali dei classici di tutti i grandi, John Lennon impegnato in imitazioni, in molteplici battute oscene, che cammina a braccetto con Ringo o gioca con la figlia di Linda McCartney, Heather.

Infine Get Back documenta l’intera esibizione dei Beatles sul tetto della Apple, con un montaggio di Peter Jackson che è favoloso. Sono d’accordo con chi ha scritto che nello spettatore prevarrà la malinconia. Perchè nelle vecchie fotografie c’è un’epoca che non tornerà più, c’è sempre il rimpianto per la nostra gioventù. Ma ciò che ci hanno dato musicalmente i Beatles è un dono che ci siamo meritati. Il libero arbitrio dimostra che uno può anche uscire pazzo per la musica di Vecchioni, ma se andrà all’inferno dovrà vedere ogni giorno Get back.

L’ultima parola la lascio a Peter Jackson: “Non c’era ego, nessuna primadonna. Erano in disaccordo su alcune cose e avevano ambizioni differenti. Ma alla fine erano solo quattro bravi ragazzi di Liverpool”.