My Movies/ L’afide e la formica

(frascop) Nel suo esordio nel lungometraggio il calabrese Mario Vitale (1985) ambienta la  storia nella sua città di nascita, con protagonista Giuseppe Fiorello e la Rai come partner. Il suo merito maggiore è che riesce a confezionare un film per le sale, accessibile a tutti, anche se qua e là lancia qualche richiamo agli intenditori (i deliri onirici del protagonista, le scarpette da corsa lanciate in alto sul filo).  Il soggetto, tratto da un testo teatrale, ha per protagonisti il “professoricchio” di educazione fisica Michele e una sua allieva, la sedicenne Fatima. I due decidono di partecipare alla corsa di S. Antonio, una maratona che ogni anno si svolge il 13 giugno per onorare il patrono della città. Ecco, pur partendo da un tema importante ma abbastanza abusato (l’inclusione e il riscatto), il film non si risolve, secondo il canone dei film di corse e maratone, nell’epica finale del traguardo raggiunto dopo sforzi, allenamenti, speranze e tanto running. La corsa è un momento del film, non la sua apoteosi, perchè la storia accompagna lo spettatore tra incubi e realtà, passato e presente, scuola e quotidiano, alla scoperta di due personaggi che cercano, come tutti, le ragioni e il coraggio per vivere. Lamezia che fa da sfondo al film è un comune sciolto tre volte per mafia, con un centro storico bellissimo guardato dal colle di San Teodoro dal castello normanno-svevo che funge, con le sue rovine, da simbolo di una terra che “non fa poi così schifo come dicono”. Bene, Lamezia dopo quasi trent’anni vede l’esordio di Vitale ricongiungersi a quello di un altro lametino, Carlo Carlei de “La corsa dell’ innocente”, forse perchè “correre vuol dire anche scappare”.
Da una realtà difficile e tormentata come Lamezia si deve fuggir via per poi ritornarvi con maggiore consapevolezza, così mentre Carlei nella sua prima straordinaria opera prima la osservava da lontano e dal mare, Vitale vi si immerge dentro. Corre per il suo lunghissimo corso, sale affannato per via dei Mille, scruta vicoli e stradine,  insomma la vive confinando la ‘ndrangheta e il suo dialetto all’interno di un bar, come fosse una componente viva ma chiusa all’interno della città. Una presenza che c’è e ti condiziona, ma che non può interrompere la ricerca della felicità e della realizzazione personale.
Quel dialetto calabrese che in “Freaks out” viene utilizzato per diventare comico, Vitale lo inserisce  per dare tono e colore al registro drammatico. Il cast, pur nella ristrettezza dell’operazione, si dimostra funzionale, soprattutto per la prova convincente della reggina Cristina Parku mentre Giuseppe Fiorello è ormai il volto dolente che ben rappresenta storie di umanità spezzata.
All’attore siciliano viene data la chance di diventare interprete cinematografico e non solo da sceneggiato televisivo di mamma Rai. Vitale, che è anche un musicista e col suo amico Naip ha costruito diversi videoclip, si avvale di una bellissima colonna sonora di Francesco Strangis e di dialoghi di sorprendente freschezza, senza stereotipi e retorica meridionalistica, proiettando così il film fuori dagli steccati televisivi.
Un esordio riuscito dunque che piacerà agli appassionati di cinema perché, come al solito, il banco di prova non è cosa racconti ma come riesci a farlo. A me pare apprezzabile la sincerità dell’opera prima perchè non tenta di far assurgere la ristrettezza dei mezzi a disposizione a scelta autoriale. In Italia ogni regista tende a pro-porsi subito come Autore e non accetta di essere il semplice  “director” all’americana. Vitale è una piacevole eccezione.