Il giusto bavaglio che serve contro il processo mediatico

(claudio cerasa) Se questo è un bavaglio, beh, viva il bavaglio. Il Fatto quotidiano ha dedicato ieri un approfondimento molto interessate a un tema poco valorizzato dagli altri giornali. Il tema è stato giustamente inquadrato dal giornale diretto da Marco Travaglio come la fine di una stagione politica, culturale e giornalista e a mettere un punto a quella stagione ci ha pensato due giorni fa in Consiglio dei ministri Marta Cartabia che è riuscita a far approvare un decreto costruito per recepire una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea risalente allo scorso due marzo. La sentenza della Corte di giustizia, per la comprensibile disperazione degli amici del Fatto quotidiano, aveva stabilito la necessita di un decreto motivato da un giudice per acquisire presso un fornitore i dati del traffico telefonico o telematico di un’utenza e la novità introdotta ora nel sistema giudiziario italiano è grosso modo questa: da oggi in poi per ottenere dei tabulati telefonici non sarà sufficiente la semplice richiesta di un magistrato ai fornitori ma sarà necessario avere anche l’autorizzazione di un gip. Lo si potrà fare solo se “sussistono sufficienti indizi di reati per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia e il disturbo sono gravi, ove rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini”.

Non poter più utilizzare a proprio piacimento i tabulati telefonici dei sospettati significa non poter più miscelare in modo del tutto discrezionale alcune informazioni sensibili che possono riguardare la vita di un sospettato (informazioni come le proprie abitudini, i propri spostamenti, le proprie relazioni). E si capisce perfettamente che per tutti i professionisti dello sciacallaggio, che si sono specializzati negli anni a spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento, sia molto complicato accettare la nuova direzione indicata al paese dal governo Draghi. Sono gli stessi che, non a caso, sono svenuti quando, ad agosto, il governo ha approvato uno schema di decreto legislativo che limita le conferenze stampa di pm e forze dell’ordine, conferenze stampa che dovranno essere autorizzate dal procuratore capo in casi di particolare rilievo e che dovranno essere costruite in modo tale “da assicurare, in ogni caso, il diritto a non essere indicati come colpevoli fino a sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Sono gli stessi che, non a caso, sono svenuti quando il governo prima e il Parlamento poi hanno approvato una riforma della giustizia che rivede i termini di durata delle indagini preliminari rimodulandoli in funzione della natura dei reati per cui si procede. Sono gli stessi che, in altre parole, soffrono ogni volta che la politica prova a compiere un piccolo passo verso l’unica direzione possibile per chi sogna di riequilibrare lo sbilanciamento che esiste oggi tra processo vero e processo mediatico: separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti. In questo senso, provare a non utilizzare più i tabulati e le intercettazioni come un condimento utile a rendere più saporite le proprie inchieste, fare di tutto per non trasformare le indagini in un’appendice dei talk-show, combattere per non rendere infinita la fase delle indagini preliminari, introdurre nella legislazione un qualche elemento utile a rendere l’azione del pm meno discrezionale, cercare in tutti i modi di trovare un punto di equilibrio tra potere giudiziario e potere legislativo significa mettere un bavaglio non alla libertà di stampa o alla libertà di informazione o alla libertà di indagine ma a quelle derive culturali che hanno contribuito a trasformare l’Italia in una repubblica giudiziaria fondata sull’esondazione delle procure e sulle veline ai giornalisti. Se questo è un bavaglio, beh, viva il bavaglio.