Il pd deve chiarire a se stesso se Draghi è solo il Lamberto Dini del 2021

(mario lavia) Il cazzotto nell’occhio che Goffredo Bettini ha rifilato a Enrico Letta mettendo in luce una evidente contrapposizione tra le due anime interne, draghiani e no, con tutte le conseguenze del caso, a partire dalle scelte per il Quirinale, in un partito normale dovrebbe aprire una discussione di tipo congressuale. Certo è che già domenica, chiudendo la Festa dell’Unità a Bologna, il segretario non potrà esimersi dal chiarire quale ruolo vede per Mario Draghi, se cioè quest’ultimo debba restare a palazzo Chigi «almeno fino al 2023», per usare la formula già da lui adoperata negli scorsi giorni o no, visto che Bettini ha completamente rivoltato la linea di Letta profilando un incredibile caso di promoveatur ut amoveatur nel vagheggiamento di Mario Draghi al Colle.

Si tratta di due opzioni opposte che rinviano alla questione di fondo: il governo Draghi è una parentesi tecnica nemmeno necessaria della storia oppure è la scelta strategica di un Pd che si avvia ad essere la forma politica del “draghismo”? Questo il Pd deve chiarire. E Letta difficilmente potrà continuare a fare l’ecumenico: Draghi ha un orizzonte politico o è poco più di un Lamberto Dini?

Ma il dramma vero del Pd riguarda i tempi e i modi delle decisioni. Non si può aspettare un congresso che chissà quando si farà, eppure sarebbe giusto che il dibattito interno uscisse dalle segrete stanze, dagli ammiccamenti, dai silenzi, dai doppi giochi e essere squadernato davanti agli scritti ma anche all’intera opinione pubblica: tutti hanno il diritto di sapere quale sia la linea politica del partito di Enrico Letta (a partire da Letta, diciamo). Si potrebbe iniziare dalle sedi interne, la Direzione e l’Assemblea nazionale con al primo punto all’ordine del giorno il Quirinale e, a seguire, le sorti del governo. E scusate se è poco.

Nel Pd dunque ora sappiamo esistere un’area che sul Quirinale non intende subire passivamente le scelte di Letta. Lo scontro può essere dietro l’angolo. Il ricordo dei 101 scotta ancora. Così rischia pure il governo.

In un certo senso è merito di Bettini quello di aver chiarito che una parte del partito – quella che per amore di sintesi chiameremo la sinistra – ritiene il governo Draghi una parentesi che va accettata forzando i suoi connotati più a sinistra possibile: missione che nel governo è affidato a Andrea Orlando e nel partito a Peppe Provenzano. Una volta chiusa questa parentesi si potrà andare subito ad elezioni con il Pd, alleato con il cavalier servente Giuseppe Conte, contro Meloni e Salvini. Auguri.

È uno schema semplice, irrobustito da un sorta di filosofia della storia – la sinistra, la destra, la parentesi, il ritorno alla sinistra, la destra e via dicendo – e che potrebbe anche giovarsi da un inatteso ritorno della cara vecchia socialdemocrazia tedesca e in una certa misura del socialismo francese, bandiere sdrucite che tornano a sventolare nel cielo della sinistra senza aggettivi rilanciando contenuti sociali e politici che si pensava superati, dal primato dello Stato a un certo antiamericanismo. Un Pd “di sinistra”, un Pds vent’anni dopo.

Dall’altra parte ci sono – anche qui è un termine sintetico – i riformisti (in altri tempi si sarebbe detto la destra del partito), che invece considerano il governo Draghi «il nostro governo», auspicano la permanenza dell’attuale premier non solo fino al 2023 ma anche oltre; e quindi si augurano un bis di Mattarella al Quirinale. Il Pd, nella visione dei riformisti, darebbe dunque forma politica, almeno in larga misura, a quel complesso di azioni riassunte nel termine di “draghismo”, cioè un riformismo costante e progressivo, pragmatico, non forzato, razionale, europeo.

Indicherebbe in Draghi il candidato premier, o almeno lo lascerebbe intendere. In questo quadro i riformisti relativizzano molto la questione del M5s, anche in previsione di una sua progressiva implosione. Ma se per la sinistra ha parlato chiaramente Bettini, i riformisti si limitano alla critica di quest’ultimo stentando ad avanzare una proposta compiuta e apparendo nel dibattito interno come frenati, se non fermi. Bettini stana anche loro.

E Letta? Letta, per formazione e per convinzione, appare vicino ai riformisti nella valorizzazione di Draghi ma è convinto che «bisogna coprirsi a sinistra» e non dimentica che la sua segreteria è stata promossa e vissuta in continuità con quella di Nicola Zingaretti, i cui uomini, occupano i posti-chiave del Nazareno. Non vuole rompere con Orlando e Provenzano, tanto è vero che la sua azione è costellata da proposte “di sinistra” e fortemente identitarie. C’è una contraddizione in tutto questo? Il segretario dice di no, convinto che radicalismo e riformismo si possano e si debbano sorreggere a vicenda. Su questa base la sua sarà sempre una linea di mediazione. Quanto può reggere?

Si deve sempre dar ragione a Landini anche quando dice fregnacce? Si deve sempre stare con i magistrati anche quando intendono scegliere loro le norme  da applicare e quelle da non approvare? Si deve essere antiamericani, anticapitalisti, antinucleari, non volere leggi che migliorino la concorrenza, pacifisti ed accoglienti ad oltranza, amanti del capitalismo di Stato e dei redditi di cittadinanza per il Mezzogiorno? Si deve continuare sempre con la Rai dei partiti chiamata per questa finzione servizio pubblico? Se queste issues sono le battaglie identitarie del radicalismo di sinistra che pensa sempre ad una tenda sotto la quale si ripara la sinistra per far la guerra alla destra (che poi sono tutti quelli che quelle issues non le approvano), si comprende come lo schemino ideologico sia il solito da guerra fredda, noi e Loro (da Berlusca sino a Salvini)

Ora, siccome Bettini, Orlando, Provenzano e gli altri sanno meglio di tutti che il segretario è, nella sostanza, con i riformisti, se ne deduce che la sinistra ha già bell’e impostate la sua piattaforma congressuale e la sua linea d’attacco. Di qui a sfidare Letta per la segreteria, con il ministro del Lavoro Orlando, ce ne corre ma è solo una questione di tempi e di circostanze. Intanto per Enrico Letta è il momento più difficile, quello in cui deve trovare il coraggio chiamando il suo partito a discutere e decidere. Anche rischiando. Né si può illudere che una bella vittoria alle amministrative, o le misteriose Agorà, possano risolvere un problema strategico. Ci dovrà essere quello scontro di linee politiche sempre rinviato, e non la solita guerra tra nomenklature che agli italiani interessa assai poco, per chiarire dove il Pd sta andando.