Mario per sempre/ Cinque idee per tenere Draghi al governo e salvare l’Italia

(christian rocca) Gli autosabotatori dell’Italia vogliono Mario Draghi al Quirinale, ipotesi di per sé favolosa se solo Draghi avesse un fratello gemello o un clone in grado di mantenere in sicurezza il paese. Ma, in assenza di congiunti della stessa stoffa, eleggere Draghi presidente della Repubblica sarebbe il più classico dei casi di promoveatur ut amoveatur, di promozione a incarico più prestigioso al fine di rimuoverlo da quello attuale. Una sventura da evitare a ogni costo.

A sperare che Draghi lasci Palazzo Chigi per traslocare al Quirinale sono tutti coloro che hanno subìto la nomina dell’ex banchiere centrale a capo del governo per salvare il paese dalla pandemia e dal disastro economico creati dal coronavirus e dal Conte due. I sabotatori sono sia i sostenitori del governo Conte due e del mai nato Conte tre sia gli oppositori che hanno sperato di incassare politicamente il malcontento generale, senza dimenticare tutti quelli che hanno furbescamente finto di applaudire la scelta di Sergio Mattarella ma che in realtà hanno presto cominciato a rumoreggiare nel momento esatto in cui hanno capito che con Draghi non avrebbero toccato palla.

E, quindi, oggi sarebbero disposti a spedirlo al Quirinale sia Matteo Salvini sia Giorgia Meloni in perenne modalità Papeete al fine di anticipare lo scioglimento delle Camere e di incassare il consenso dei sondaggi, proprio adesso che sono ancora caldi. Sarebbe prontissimo a eleggere Draghi anche Giuseppe Conte per rivalsa tardo-adolescenziale e perché spera ancora di guidare alle elezioni le masse progressiste su gentile concessione del Partito democratico. L’idea tenta anche il Pd, o almeno la parte che conta del Pd, per nessun apparente motivo logico o razionale o politico se non quello di precludere ogni ipotesi riformista o liberal-democratica e di fare un dispetto ai padri dell’operazione che ha disarcionato Conte e portato Draghi a Palazzo Chigi.

Poi ci sono i fellow travellers, quelli che un tempo si chiamavano utili idioti. Si sentono dei gran furbacchioni, del resto sono capaci di scaltrezze tipo quella dello scorso anno a sostegno al referendum populista con cui è stato mutilato il Parlamento repubblicano e vilipesa la politica. Questa volta la trovata geniale dei compagni di strada del populismo è la seguente: eleggere a febbraio Draghi al Quirinale come una garanzia per quando i sovranisti vinceranno le elezioni.

Una posizione che avrebbe la sua logica, perché è ovvio che se i neo, ex, post fascisti vincessero le elezioni ci sentiremmo più protetti se al Quirinale ci fosse Draghi e non uno qualunque.

Ma sostenere oggi Draghi al Quirinale è un’idea macchiata da una fallacia argomentativa tipica dei retroscenisti e il prodotto di una capitolazione intellettuale che non tiene conto, per esempio, che l’Italia non è ancora uscita dall’emergenza economica e che senza Draghi alla guida del governo verrebbe a mancare la garanzia che i soldi del Recovery Plan siano spesi secondo i piani e accompagnati dalle riforme necessarie affinché l’Europa continui a finanziare la ripresa.

Con Salvini o Meloni a Palazzo Chigi, o con qualche altro premier estratto a sorte tipo Conte, tornerebbero i toni anti europei, i deliri cospirativi e le controriforme, ma soprattutto perderemmo anticipatamente la credibilità internazionale faticosamente conquistata dall’Italia di Draghi dopo le due più improbabili esperienze di governo repubblicano, entrambe firmate Conte.

Che fare, dunque, per evitare una disfatta tipo quella americana a Kabul e salvare le famiglie italiane dall’ipotesi di un ritorno al potere degli incompetenti e dei neo, ex, post fascisti?

Primo: lasciare che Draghi governi fino a scadenza naturale della legislatura, nel 2023, per completare la prima fase della ricostruzione post pandemica (enfasi su “prima fase”).

Secondo: a inizio 2022, eleggere al Quirinale una figura di solidi principi democratici e nervi saldi.

Terzo: ritardare, non accelerare, la possibile ascesa al potere dei sovranisti, tenendo Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 e costruire in questi due anni un’alternativa costituzionale al bipopulismo.

Quarto: approvare, come promesso al momento del referendum sul Parlamento, una legge elettorale proporzionale.

Quinto: dare rappresentanza politica all’agenda riformatrice di Draghi, anziché organizzarne la fronda, e presentarsi alle elezioni politiche del 2023 con il progetto di completare il piano di rilancio dell’Italia finanziato dall’Europa e, per questo, dichiarare fin dalla campagna elettorale che, qualunque sarà l’esito delle urne, gli antipopulisti indicheranno al Capo dello Stato come presidente del Consiglio un solo nome: Mario Draghi.

Senza il Pd, e senza Forza Italia, tutto questo non si può fare o sarebbe velleitario. Oggi il Pd non c’è, e nemmeno Forza Italia. In modo diverso, i due partiti che bene o male hanno guidato il paese dal 1994 alla scorsa legislatura, si sono consegnati alle due varianti del bipopulismo perfetto italiano, ritagliandosi il ruolo di volenterosi complici di qualunque portatore di idee illiberali, autoritarie e anti occidentali.

La partita si gioca qui, nel centrosinistra democratico e in quel che resta del centrodestra liberale. E non è una bella partita.