La ritirata dei riformisti del Pd è anche peggio di quella americana

(f. cundari) Il dibattito italiano attorno alla disastrosa ritirata americana dall’Afghanistan è viziato da molte contraddizioni, prima tra tutte quella di chi contesta agli Stati Uniti sia l’idea di rovesciare il regime dei talebani nel 2001 sia la decisione di lasciar loro campo libero nel 2021. Sia la pretesa di esportare democrazia e diritti umani sulla punta delle baionette, sia la scelta di riportarsi a casa le baionette, senza pensare alle conseguenze per la democrazia e i diritti umani. Un casino che non consente di discutere nemmeno di cosa esattamente sia andato storto, cioè quasi tutto, a giudicare dai risultati, proprio perché si ferma alle premesse ideologiche.

Il difetto più insidioso di questa discussione sta però nella tendenza a schiacciare la guerra in Afghanistan su moventi, cause e conseguenze della guerra in Iraq, che è venuta dopo ed è stata per molti versi il suo esatto contrario.

Non si tratta infatti di un anacronismo come un altro: l’intervento in Afghanistan era giustificato dal sostegno offerto dal regime dei talebani ad al Qaeda, che aveva appena fatto migliaia di morti nel centro di New York con gli attentati dell’11 settembre. Proprio per questo la missione militare aveva visto la partecipazione unitaria dei paesi occidentali. L’esatto contrario, appunto, del famoso unilateralismo americano che caratterizzerà l’intervento in Iraq, con la dottrina della guerra preventiva e tutto il dibattito sull’esportazione della democrazia che ne seguirà.

Per la sinistra italiana fu un passaggio molto difficile, perché l’11 settembre e la scelta dell’intervento in Afghanistan arrivarono nel pieno di un congresso, quello tenuto dai Ds a Pesaro, e divennero il centro di una battaglia politico-culturale durissima tra riformisti e radicali. Basta ricordare che i riformisti guidati da Piero Fassino, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema avevano contro — unico caso in tutta la storia dei congressi di Pci-Pds-Ds — sia il segretario della Cgil (Sergio Cofferati), sia il direttore dell’Unità (Furio Colombo).

La ragione per cui ricordo questi noiosi dettagli è che penso diano adeguata misura di quanta strada sia stata fatta da allora, all’indietro. E di come la scelta dell’alleanza populista con i grillini e della retorica sinistrista come surrogato identitario (di una politica che non c’è perché sacrificata alla suddetta alleanza) abbiano prodotto un gigantesco cortocirtuito politico-culturale.

Nella sua sconcertante intervista di ieri a Repubblica, infatti, Enrico Letta arriva a dire la seguente frase: «Non dimentichiamo mai che la metà dei rifugiati arrivati in Europa nel decennio scorso provenivano da Afghanistan, Iraq e Siria, le tre guerre sbagliate dell’Occidente».

Abbuoniamogli pure il fatto che in Siria l’occidente non ha fatto nessuna guerra (e il risultato delle sempre invocate pressioni diplomatiche non è stato dei migliori per la popolazione civile), ma come può il segretario del Partito democratico bollare ora in quei termini anche il conflitto in Afghanistan, come se la posizione di Ds e Margherita (i partiti-progenitori del Pd), e del medesimo Enrico Letta, fosse stata allora la stessa della sinistra radicale?

L’aspetto più sconcertante è che non si tratta nemmeno di una vera e propria abiura, concetto che implica almeno un certo grado di consapevolezza del rapporto tra passato e presente. Alla precisa domanda se quella in Afghanistan sia stata solo una guerra persa o anche una guerra sbagliata, infatti, Letta risponde così: «Una guerra disseminata di tanti, troppi errori, a cominciare dall’unilateralismo con cui è stata aperta e chiusa dagli Stati Uniti». E subito dopo, forse nel tentativo di giustificare l’evidente anacronismo dell’affermazione precedente: «Non si può infatti leggere la vicenda afghana slegandola dalla guerra in Iraq del 2003 e dalla over-reaction americana dopo l’attentato dell’11 settembre».

Personalmente penso che questa ricostruzione sia totalmente sbagliata, per le ragioni che ho provato a spiegare all’inizio, ma non è il punto decisivo. Il punto decisivo è che questa era la posizione della sinistra radicale e del pacifismo più intransigente (e, specularmente, attribuendo cioè un significato positivo a quella “over-reaction”, di tutti i sostenitori della politica estera di George W. Bush).

Se dunque il leader del principale partito della sinistra riformista si è convinto oggi che avessero ragione loro, e torto lui e tutto il gruppo dirigente del suo partito, lo deve dire chiaramente, e possibilmente spiegare perché. Nella speranza che in quel partito ci sia ancora qualcuno capace di alzarsi e difendere una posizione diversa, che ha una sua storia, una sua coerenza e una sua dignità. O almeno ce le aveva.