Don Saverio oggi starebbe con los redentores?

Mi succede spesso di interrogarmi su cosa avrebbe detto don Saverio Gatti se avesse vissuto con noi gli ultimi nostri venti anni. Ma alla fine la mia immaginazione non mi fornisce che semplici ipotesi, perchè sinceramente non so cosa avrebbe detto e fatto, magari sarebbe stato in sintonia con un Goffredo Bettini oppure no, non lo so.

Pertanto quando ho letto sull’ultimo numero della Rivista “Testimonianze” un contributo originale dell’avv. Mario De Grazia “Cattolici e sinistra in Calabria: storia di una contaminazione politico-culturale”, il mio dilemma si è ripresentato. De Grazia ripercorre, a partire dal dopo guerra, l’impegno e le lotte di molti cattolici di sinistra in Calabria e a Lamezia che provocarono forte scandalo nella chiesa ufficiale del tempo e fra i benpensanti.

Con le osservazioni che faccio non intendo scrivere un altro saggio nè una recensione ma soltanto raccogliere spunti per collegare due periodi storici che Mario ed io abbiamo avuto la fortuna di vivere, l’incontro con don Saverio e il governo Draghi di oggi.

Per quanto mi riguarda ciò che ci aveva raffigurato Manzoni con il suo pessimismo religioso e il convinto liberalismo politico (che invece di contraddirsi, convergono), la possibilità cioè di due modi opposti di essere religiosi, don Abbondio da una parte e fra Cristoforo (o il cardinale Borromeo e Gertrude) dall’altro, è sempre stata essenziale. Don Saverio per me è stato uno spartiacque mentre facevo il ginnasio. Le vittime e i loro oppressori si trovano diametralmente contrapposti e tra di loro si trovano i personaggi che svolgono una funzione di mediazione.
Nel Manzoni questi mediatori sono tutte figure religiose, che ricoprono però nel romanzo un ruolo opposto.
Un famoso duello tra due teologie e scuole di pensiero, tra due modi di vivere la fede e la Chiesa, lo osservammo da vicino a Nicastro, lo ricorda bene Mario, tra padre Balducci e il vicario del tempo, don Mario Milano. Quegli spettatori ammirati quel giorno dalla sapienza e dall’umiltà di Balducci pensavamo ingenuamente (almeno quanto lo fossero Renzo e Lucia) che sarebbe stato più facile in futuro “scegliere” da che parte stare nel mondo, come successe da laici scegliere nel 1974 col referendum sul divorzio. Pensavamo che la teologia di Balducci, l’amore per il prossimo e gli ultimi, la devozione (parola che uso a proposito) ai precetti costituzionali, la protesta contro le ingiustizie e le discriminazioni, ci consentissero in ogni frangente di scegliere agevolmente da che parte stare. Ma la politica e la realtà non consentono scelte facili se le questioni diventano sempre più complesse e complicate, sempre più aggrovigliate e internazionali e difficili da inquadrare a meno che tu non sia uno specialista della materia specifica che affronti.
Per capirci, voliamo dall’alto al basso, da don Saverio (“i suoi interventi pubblici, a volte anche duri, erano sempre e solo mirati alla denuncia di prevaricazioni ed ingiustizie”) a quella deficiente del sottosegretario Castelli (quella che all’economista Padoan alla fine di un altro mitico duello televisivo seppe solo dire: questo lo dice Lei!). Quanta acqua è passata sotto i ponti.
I movimenti e le rivoluzioni “culturali” si possono ricostruire: le Acli, La Pira e Raniero La Valle, Davide Maria Turoldo, don Lorenzo Milani; la scelta di classe fatta da Labor e Gabaglio a Vallombrosa nel 1970 e confermata a Nicastro come in Calabria. Nel nostro piccolo la “Comunità del sabato” di don Saverio, scrive De Grazia con grande semplicità e chiarezza, “aveva preso coscienza della necessità del trapasso dalla fede ideologica alla fede profetica e, conseguentemente, del fatto che dalla scelta di fede non scaturisse affatto un’identica opzione culturale e politica; non costituendo, la fede, una particolare visione del mondo e della società da imporre a tutti gli uomini”.
Ma  dopo le rivoluzioni culturali e una scelta netta di campo si diramano in tutte le direzioni le opzioni politiche, che sono cento anche se tutte derivano dalla stessa matrice culturale.

La caduta del Muro di Berlino nel 1989 è stato il vero spartiacque (don Saverio ci aveva lasciati appena sei anni prima). Esso, dice De Grazia, “poneva fine alla incomunicabilità politica riportandola su livelli di confronto più civile. Si mettevano a nudo, nel contempo, la degenerazione dei partiti politici, principali soggetti di quella politica totalmente ideologicizzata, sia la difficoltà ad interpretare, fuori dalle semplificazioni e dagli schematismi, le nuove domande di contenuto e di qualità che emergevano dal paese reale”. Verissimo, ma dopo la caduta del Muro che cosa è avvenuto purtroppo in Italia?
E’ avvenuto che a sinistra, pur superata la “conventio ad excludendum”, la “Questione comunista” è rimasta aperta  squadernata sul tavolo. Ancora fino ad oggi non si sono voluti fare fino in fondo i conti con la storia del comunismo, dalla Rivoluzione d’Ottobre al suo crollo. Ma i conti non si sono fatti nemmeno con la presunta eresia del Pci, non solo sul piano ideologico, ma anche del concreto agire politico. La rivoluzione del Lingotto (2011) la voleva superare collocando il Pd in quel campo dove stanno le socialdemocrazie e i partiti liberaldemocratici europei. Questo sforzo venne paralizzato se non azzerato con la defenestrazione di Walter Veltroni e il ritorno del dalemismo alla guida del Pd, che della tradizione postcomunista è sempre stato il custode e l’interprete più autentico.
“Rimanere un partito né socialdemocratico, né stabilmente guidato da una cultura liberale di sinistra, ma una forza sempre in mezzo al guado tra quell’approdo e il suo contrario, perché governato da un gruppo dirigente in larga misura del tutto estraneo a quelle tradizioni politiche, ha prodotto una miriade di cortocircuiti in merito alle grandi questioni del nostro tempo che hanno impedito al Pd di consolidare una identità chiara e solida” (a. maran).

Basti pensare all’incertezza sulla globalizzazione per cogliere a pieno le implicazioni generate da questa incertezza identitaria.
La più grande trasformazione del mondo dopo la Seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento è ritenuta da molti esponenti di quel partito il male assoluto, invece che il terreno di nuove opportunità, perché generatore di catastrofiche diseguaglianze a cui contrappone una specie di un nuovo socialismo che però ha al suo interno iscritte molte suggestioni irriflesse, come il protezionismo, lo statalismo assistenzialista, l’anticapitalismo globalista, che oggi hanno più a che fare con il nazionalismo che con il socialismo: si staglia all’orizzonte una sorta di neosocialismo nazionale statalista e antimercatista, contrapposto al liberalismo, quando dall’antifascismo degli anni Trenta in poi il pensiero progressista si è costruito proprio sull’integrazione tra socialismo e liberalismo da cui è disceso il grande compromesso riformista che ha rifondato l’Occidente e il mondo dopo il collasso della Seconda guerra mondiale”(a. de bernardi, Linkiesta).
I “cattocomunisti” alla Rodano forse oggi senza influenza alcuna navigano sotto traccia in qualche sommergibile, ma proprio il riferimento mitizzato di Enrico Berlinguer, padre della sinistra universale per quel suo richiamo alla questione morale come tema politico dominante per la rigenerazione della politica partitocratica, forse può essere annoverato invece come uno dei punti di partenza della deriva populista oggi egemone in Italia. Persino al segretario Letta impedisce di ritenersi e di definirsi garantista e di appoggiare in pieno la riforma Cartabia, perché soggiogato dalla reazione giustizialista del Partito dei PM, degenerazione inevitabile di chi pretenda di fondare il partito degli onesti.
Non restano  soltanto irrisolte le questioni internazionali, che evocano la storia dei comunismo soprattutto nelle sue varianti terzomondiste – dal Venezuela di Chavez, alla Cuba castrista, alla Palestina di Hamas, persino alla Cina di Xi Jinping (di fronte alle quali il Pd oscilla pericolosamente tra le derive irriflesse di un antimperialismo cadaverico e una spasmodica ricerca di altre vie che gli consentano di non prendere posizione, di destreggiarsi, tra democrazia e antidemocrazia).

Riemerge continuamente una concezione del capitalismo come male da estirpare, come moloch da abbattere per avverare il sogno del mondo nuovo nel quale come ha evocato l’economista Marianna Mazzuccato lo stato sarà in grado di garantire un’equa remunerazione a tutti quelli che ne hanno bisogno.

I Manifesti di Goffredo Bettini usciti nell’infausta stagione del Conte II o l’esaltazione della Cina di Massimo D’Alema sono espressione più autentica di questa concezione del mondo che è quanto di più lontano vi sia dalla socialdemocrazia e dal socialismo liberale, che invece il Pd era nato per realizzare anche in Italia”.
Anche un fine politico friulano, Alessandro Maran ha spiegato bene lo stesso concetto: “…il Pci, si sa, non era un partito socialdemocratico e non voleva diventarlo; l’austerità (berlingueriana, ndr) che gli italiani dovevano abbracciare come visione e stile di vita doveva essere la premessa di un radicale cambiamento del modello di sviluppo fuori dal quadro e dalla logica del capitalismo; l’attacco all’individualismo era centrale nella cultura del partito ed il superamento del capitalismo e la lotta all’imperialismo americano erano opzioni ideologiche di fondo e, in quanto tali, del tutto estranee alla tradizione politica occidentale: Antonino Tatò, tra i principali collaboratori di Berlinguer, arrivava addirittura a sostenere che «i paesi socialisti sono superiori ai paesi con i governi socialdemocratici, l’Urss è comunque superiore alle socialdemocrazie».

Il Pd dunque non ha ancora fatto i conti con la questione comunista e con l’ombra di Enrico Berlinguer. Non può farlo perché ampi settori del partito ormai condividono, con Liberi e Uguali e i Cinque Stelle, molti dei tratti dei movimenti sudamericani dello stesso segno (peronisti, apristi peruviani, chavisti, ecc.): l’antiliberalismo, l’anticapitalismo, l’anti-istituzionalismo, l’ostilità nei confronti della democrazia parlamentare e il favore per quella plebiscitaria, la difficoltà a distinguere tra morale e politica e l’ostilità nei confronti del libero mercato e della ricchezza, a tutto vantaggio di uno stato sempre più pervasivo.
Del resto, i grillini sono anch’essi una pagina «dell’album di famiglia» della sinistra italiana. E ciò che li rende figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’ossessione per la purezza, la demonizzazione del nemico, l’idea che il peccato pervada il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo. Non per caso, la visione di una democrazia «organizzata», sobria e frugale, che fa capolino nelle paternali di Goffredo Bettini, dove il partito accudisce le masse perché non perdano l’anima seguendo le tentazioni del capitalismo e del consumismo, porta, appunto, quell’impronta.
Tutto si tiene, or dunque, caro Mario. Non deve sorprenderci come tutti quelli che non hanno ancora elaborato il lutto dal crollo del mondo comunista tornino alle “origini evangeliche” dell’antiliberalismo nei paesi latini.
Pertanto abbiamo a che fare con due peronismi.

Il populismo di Conte (e dell’attuale Pd) è il peronismo, cinico ma pragmatico, di Juan Doming Perón (detesta il capitalismo e la globalizzazione, ma sa perfettamente che l’autarchia è controproducente e che con essi tocca fare i conti); il populismo del Luigi Di Maio dei tempi d’oro (ma anche quello di Matteo Salvini) è invece il peronismo millenaristico, manicheo, redentore, di Eva.

Dalla sconfitta elettorale del 2018 il Pd ha subito una trasformazione genetica, che nulla ha a che vedere con la fisiologica alternanza propria di tutti i partiti di sinistra europei tra maggioranze liberaldemocratiche e maggioranze socialdemocratiche che ne assumono pro-tempore la direzione: è avvenuto nel Labour britannico, nel SPD tedesca, nei partiti socialdemocratici scandinavi, nello PSOE spagnolo e persino nel Partito democratico statunitense.
Tutta colpa del Pd? Nient’affatto. I suoi vizi e i suoi difetti sono quelli di un’Italia immobile, che non riesce ad affrancarsi dalle ideologie novecentesche. Oltretutto, non è certo da oggi che in Italia los redentores si contendono i fedeli e non è certo la prima volta che l’Italia che redime batte l’Italia riformista. Tuttavia, los redentores non hanno niente a che fare con la sinistra moderna. Il rischio è quello di dimenticarlo. Don Saverio Gatti, sacerdote che amava la Chiesa ma guardava “oltre”, oggi sarebbe stato accanto ai los redentores o uno dei pochi, un semplice riformista liberale? Io proprio non lo so.